Stronca che ti passa

Pensieri disordinati su “Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema e teatro”

Pier Angelo Cantù

Ridimensionare: v. tr. [der. di dimensione, col pref. ri-] (io ridimensióno, ecc.). –…ridurre a giuste, o idonee, opportune, misure e proporzioni: r. un piano urbanistico, un programma di operazioni; in usi fig., dare una valutazione più rispondente alla effettiva realtà, e in genere limitativa, a persone, enti e istituzioni, fatti, notizie cui sia stata attribuita un’importanza eccessiva: r. la notizia di un avvenimento, la gravità di uno scandalo, la portata di una scoperta, la fama di uno scrittore o di un personaggio storico; è un bravo attore, sì, ma va senz’altro ridimensionato. Con l’uno o con l’altro sign., è usato anche l’intr. pron. ridimensionarsi, ricondursi o essere ricondotto a giuste o più adeguate proporzioni: la ditta si è ridimensionata; le sue pretese si sono ridimensionate; dopo essere stato bocciato al concorso, si è un po’ ridimensionato. (Vocabolario Treccani).

La magnanimità con cui si recensiscono i “capolavori assoluti”, pubblicati con generosa costanza da una pletora di editori mediamente agonizzanti, ha pervaso anche le riviste di letteratura, cultura e poesia. Sono ambiti in cui ci si aspetterebbe di veder agire figure dotate di una certa struttura critica o lettori di professione; gente capace di esprimere un giudizio sapiente e oggettivo, se non altro per marcare la distanza dal plaudente coro dei blogger e dal vociare univoco della qualunque profilo social.

Inquadrando in un orizzonte più ampio l’alta letteratura che prolifera oggi con ciò che si pubblicava qualche decennio fa, ad esempio mettendone in relazione i riflessi sulla società, qualcosa però non torna. E una delle cose che non tornano è la totale assenza di giudizi negativi, di sane bocciature, o quantomeno di disamine più appropriate: la stroncatura è scomparsa dai radar.

Eppure, in passato, rappresentava una sorta di presidio, il “cane da guardia” con cui la dottrina del critico abbaiava in direzione dei lettori per avvertirli di non scambiare per poeti e romanzieri dei “mediocri falsari che tentano di dissimulare sotto roselline di stucco, incrostazioni di finta madreperla e glasse colorate la superficie di una scrittura intrinsecamente non meno piatta e desolata del retro di un casamento popolare” per dirla con le parole di Giovanni Raboni, il “re censore” per eccellenza e spina dorsale di questo articolo.

Le stroncature di Raboni, raccolte in un bellissimo volume di Mondadori dal titolo “Meglio Star Zitti? – Scritti militanti su letteratura cinema teatro” (quesito al quale avrebbe risposto con un no secco) sono disamine sempre finemente accurate.

Ciò che le rende autorevoli è la competenza con cui un poeta della sua levatura sapeva entrare nelle profondità del prodotto restituendone un giudizio preciso, con leggerezza; tanto per cominciare lasciando fuori l’autore e le eventuali relazioni personali intrattenute e ricavando pensieri espressi con garbo, essenzialità e, all’occorrenza, una giusta dose di ironia.

Raboni ha una visione chiarissima della cultura e della responsabilità del critico militante pertanto, perseguendo con profonda onestà la distinzione del vero dal falso, si assume l’onere di una sfida etica, tanto solitaria quanto disperata.

L’autorevolezza che gli era riconosciuta, se l’è conquistata con una reale lunga militanza redazionale, mettendo in evidenza fin dagli albori i rischi della mercificazione della cultura a danno di un pubblico manipolato a dovere.

Nelle sue recensioni, Raboni mantiene sempre a equa distanza le componenti emotive, sia le tentazioni di indulgenza sia i rischi di ripicca, pennellando valutazioni non inquinate né inquinabili nel bene e nel male e molto ben argomentate a ogni passaggio.

Com’è giusto che sia, non usa mezzi termini per servire al lettore il quadro asciutto in cui valutare l’opera, sia rispetto al percorso dell’autore esaminato, sia nell’ottica del genere trattato, creando una sorta di canone anche al fine di non confondere queste recensioni con altri scritti di valutazione riscontrabili altrove, solitamente figli illegittimi di un marketing letterario molto ben organizzato nelle sue differenti sembianze (deriva che Raboni ha preconizzato con largo anticipo e sempre combattuto strenuamente).

Tra i bersagli delle sue recensioni su letteratura, cinema, teatro, troviamo più o meno tutti, da chi sarebbe banale e perfino ovvio stroncare come Stefano Benni “la cui stralunatezza sforzata lo fa sembrare l’ultimo scrittore al mondo che crede ancora nell’irresistibile comicità della congiunzione ‘laonde’ e della litote ‘non avremmo discaro’”; a chi invece è da approcciare con maggiore attenzione perché, nel quadro di un talento e un’originalità reali, si dissimulano debolezze magari nascoste dietro una vertigine sperimentale e un po’ dissacratoria. E’ il caso di “Nostra Signora dei Turchi”, in cui “Carmelo Bene regala notevoli intuizioni di regia e performance di mimo, ma a volte, malgrado l’esibita oltranza sintattica, non oltrepassa la gag alla Walter Chiari, e soprattutto si sceglie obiettivi troppo facili, spernacchiando feticci da illustrazione ottocentesca già coperti di polvere”.

Siamo così disabituati ad ascoltare voci che non eseguano la medesima melliflua sinfonia tutta cuoricini e pollicioni, sottofondo armonioso alle suadenti moine con cui ci vengono presentate quotidianamente produzioni non meno che leggendarie – spesso con l’ausilio di accostamenti elevatissimi usati con sconcertante leggerezza, tipo “il nuovo Melville viene da Polignano a Mare e ha descritto la poesia che lega riso, patate e cozze” – che il rischio sarebbe quello di considerare Raboni come un professionista dell’insulto e della provocazione, anche se dotato di un’ottima verve argomentativa e un pungente e intelligente sarcasmo.

A chi volesse accostarsi a questa raccolta (che caldeggio vivamente a romanzieri, poetucoli e influencer della scrittura di nuova generazione) consiglio però prima di farsi un giro in rete per rinfrescare la memoria su chi sia stato Raboni e soppesarne la traiettoria: sarà sufficiente la pagina di Wikipedia e due o tre articoli che trovate su qualche rivista online.

Per i lettori, avvicinarsi a Raboni con cognizione di causa servirà quantomeno a valutare meglio le iperboliche evoluzioni dei trapezisti della scrittura odierna, le irritanti pratiche finto-snob dei radical-click, il dilagante presenzialismo dei frequentatori a oltranza dei festival culturali (in cui i libri contano tanto quanto le salamelle ma dove è sempre meglio esserci) e i cori da stadio degli ultras delle curve, sempre abili a prodigarsi in recensioni roboanti e grondanti aggettivi superlativi sugli ultimi prodotti dei loro beniamini, senza magari aver mai letto una riga di Shakespeare, Leopardi, Manzoni, Milton e Austen (a questi soggetti consiglierei un giro più largo, sia in rete che in libreria, dando una sbirciatina anche a qualcosa del sempre troppo poco compianto Harold Bloom, ad esempio i due “Canoni”).

In attesa di veder riapparire, almeno sporadicamente, qualche sana stroncatura sugli schermi dell’odierno teatrino della critica letteraria (ovviamente su libri di cui vale la pena parlare, mentre per gli altri il totale oblio sarà un nobile gesto di carità cristiana), ci auguriamo che la ripresa di tale pratica avvenga quantomeno per mano di recensori onesti, dalle palle quadrate e con le idee chiare; gente che abbia anche un minimo di carattere e una voce non troppo flebile, dato che dovrà essere in grado di sopportare le censure vittimiste e le guerre sotterranee scatenate dall’ego ferito di chi sarà stato oggetto della loro valutazione.

Intanto, godiamoci quindi queste 170 brevi e acute recensioni di una delle voci più alte della nostra critica passata tenendo conto di quanto si dice nella quarta di copertina: “Una stroncatura serve alla buona salute della letteratura cento volte di più che un elogio infondato”.

E’ talmente autorevole la voce di Raboni, da riuscire a “ridimensionare” i feedback di voci altrettanto alte nel momento in cui la disamina di qualche loro prodotto ne esce un po’ malconcia. Un esempio illuminante riguarda Calvino.

Occorre ricordare che Raboni si è dimostrato lucidamente duro su tutta la seconda stagione calviniana, a partire da “Le Cosmicomiche” fino alle “Lezioni americane”, queste ultime evidenziate dal critico come viatico dell’autore per traghettarsi verso qualcos’altro (e in effetti oggi il povero Calvino è finito per essere considerato uno scrittore pop).

Così scrisse Raboni: “Ridotto a piccole formule elementari, piacevoli, rassicuranti, a pochi temi pulitamente svolti ad uso, si direbbe, di studenti sprovveduti e neghittosi, l’esaltante corpo a corpo che oppone e identifica le forme dell’esperienza e quelle della scrittura, l’incandescenza dell’emozione e la ‘freddezza’ dell’oggetto poetico finito ci appare come un gioco enigmistico di illusoria, fraudolenta facilità, un investimento alla portata di tutte le borse come l’acquisto di un nuovo televisore o di una nuova lavatrice. Chi vuol farsi ascoltare da tutti alla fine ci riesce, purché rinunci a dire quello che aveva da dire”.

Nel bel mezzo di questo trattamento non proprio ossequioso, subito dopo aver letto la stroncatura di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Calvino scrive una lettera a Raboni, ma non per dargli dello stronzo, come farebbe oggi la poetessa di Voghera che ha appena pubblicato il suo diario delle medie, bensì per mostrargli gratitudine: “Trovo che nel rendere la sostanza vera del mio lavoro, il tipo di comunicazione che cerco di stabilire, tu dimostri una sensibilità, una incontentabilità per le definizioni sbrigative, tutte qualità più uniche che rare”.

Verso la fine della sua carriera, Raboni alza disperatamente ancora di più i toni per farsi scudo contro la commercializzazione sempre più becera dell’arte in generale, in particolare della produzione letteraria, secondo il critico ridotta a falsità. “Un libro falso – scrive Raboni – è costruito per sembrare ciò che non è, per fingere qualità e virtù che non possiede: perciò irretisce, confonde, ‘cattura’ i poveri lettori, facendo perdere loro il senso e persino il ricordo del sapore, della sostanza, del nutrimento offerti dalla vera letteratura alla quale, esternamente, assomiglia in modo impressionante, o comunque sufficiente a trarre in inganno un gran numero di persone. Un prodotto che ricorda i cibi adulterati che siamo costretti ogni giorno a ingurgitare e che a loro volta, oltre a nutrirci di meno e a propiziarci malattie mortali, ci fanno fatalmente dimenticare il sapore, l’aspetto, l’‘immagine’ dei cibi genuini…”. Altro che stare zitti, quindi!

Ma anche una voce autorevole come quella di Raboni, alla fine da sola non basta, perché lottare contro il sistema è da sempre un atto collettivo. Ed è così che, per togliersi di mezzo questa voce ormai scomoda, con gesti di falsa eleganza gli editori coalizzati preoccupati che il pensiero di Raboni non finisse davvero per inficiare i loro budget o togliere prestigio alle classifiche di vendita, con una mano lo hanno elevato in cima all’olimpo dei critici, mentre con l’altra gli hanno sottratto sempre più spazio, relegandolo a una minuscola colonnina sulla pagine del Corriere.
Finché questa voce non si è taciuta da sola, per effetto naturale.