Approfondimenti
SULLA DISPERATA BELLEZZA DEL SUICIDIO
a cura di Ianus Pravo
(La lettura di questo testo è totalmente sconsigliata ai cretini)
Io non voglio pensare ciò che mi vogliono far pensare, per dirla con Antonin Artaud. E già con questa affermazione ho descritto il lager in cui sono rinchiuso. Io è sempre un altro, e la volontà non mi appartiene, appartiene a un altro. Sto tremando con l’Io piantato nel ventre come una katana che non mi ha leso nessun organo vitale, e mi lascia agonizzare per un tempo che mi sembra eterno. L’Io possiede la crudeltà di un boia inetto. Lo seppe Mishima, che ebbe comunque un amico, o discepolo che fosse, con l’opportuna pietà per rifinire il seppuku ridicolmente inefficace dello scrittore.
E sempre attenendomi ad Artaud, sono consapevole che il suicidio è la conquista favolosa e lontana degli uomini che pensano bene. Degli uomini, quindi, che pensano ciò che gli vogliono far pensare. Non sono così ingenuo, per quanto io sia totalmente ingenuo, da credere nel suicidio come atto di libertà, nonostante Montaigne (la vita dipende dalla volontà altrui, la morte dalla nostra), o nonostante Nicolas de Chamfort (re e preti, nel condannare la dottrina del suicidio, hanno voluto assicurare la durata della nostra schiavitù). La catena di Prometeo è il fuoco: di nuovo, è la katana dell’atto, l’Io, che mi tiene in vita, mi tiene a vibrare come la ferita attorno all’arma conficcata.
Non vi è comunque un atto di libertà: ogni atto è produttore di senso, di significato, ed ogni senso, ogni significato, non possono che rigenerare il cancro senza fine della vita dell’altro in cui mi si vive. Sono comunque nell’inferno, lo sono anche nel voler non essere, non sapendo esprimere il non essere se non ricoprendolo di copule, di desiderio, di volontà, di coscienza. Riducendolo a prodotto di un atto, quando in esso non vi è che l’alterità rispetto all’atto.
Io sono un ergastolano della vita, la vita è una casa di lavoro, ergastêrion. La vita è lavoro, ergon, carcere. L’ ergazesthai, l’operare, è Auschwitz, ogni atto è Auschwitz, anche il suicidio. Non ne posso uscire. Ma, non potendone uscire, posso sventrarmi, posso togliermi il ventre e togliermi dal ventre in un supplizio di bellezza? Posso concepire un atto tanto arrogante quanto compassionevole per il suo voto intimo al disastro? Posso votarmi all’impossibile libertà della sconfitta? Posso, cosciente, entrare in possesso dell’incoscienza del sonno? Io so, con John Donne, che nessuno dorme quando cammina verso il patibolo, verso il sonno del patibolo.
Non credo in nulla di trascendente. Nemmeno la bellezza trascende alcunché: è un aborto di realtà, non va oltre nulla, ma rimane al di qua di tutto. La bellezza del suicidio rimane al di qua di tutto: non conosce perdizione né salvezza, solo il crollare del gesto sulla sua illibertà, la coscienza di accrescere di un gesto la realtà, e il sonno che infrange il gesto contro la roccia della realtà. “Una pistola, è solida, è d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi finalmente, con le cose”, scriveva Drieu La Rochelle. Ma è rimanere al di qua delle cose lo scontro essenziale. La bellezza è lo scontro essenziale. Lo scontro che paradossalmente fugge dall’essere. La bellezza che fugge col mio suicidio e dal mio suicidio.
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