Approfondimenti
Sussurri e grida nel concerto delle consuetudini
Il 10 dicembre del 1896 Alfred Jarry porta per la prima volta in scena il suo “Ubu Re”, scatenando un tumulto di reazioni contrastanti tra gli spettatori: urla, fischi, applausi e scene varie di delirio primordiale. Qualche giorno dopo, la stampa si dà il compito di comporre la questione, inquadrando il personaggio di Ubu come “il compendio caricaturale di tutto ciò che di ignobile, sciatto, vile e disgustoso nasconde l’animale uomo che vive in società” (così riportava un resoconto).
La natura involontariamente complessa di questo soggetto deforme, ispirato a Jarry dalla trasfigurazione di un insegnante di fisica del liceo, viene successivamente ridefinita in maniera più articolata e così Ubu finisce per diventare “il precursore di tutti i buffoni dell’attuale mondo delle lettere” (come ebbe a scrivere Rachilde Vallette) creando i presupposti per sdoganare nell’universo delle arti la figura del mattoide, incrocio tra lo scienziato visionario, il teorico bizzarro e il letterato delirante; gente letteralmente sottratta a una vita da passare fra le mura di un manicomio e portata alla gloria dall’accettazione della patafisica come scienza delle eccezioni (e quindi delle espressioni eccezionali).
Nella sua recensione, che prendiamo a pretesto per incanalare in un flusso logico la nostra perdita di tempo organizzata in forma verbale, L’Éco de Paris definiva la messa in scena come “un grido originale e discordante nel concerto delle consuetudini”.
La nozione di “concerto delle consuetudini” applicata allo stato in cui si trova oggi la musica popolare a seguito del suo tortuoso cammino evo-involutivo, è di straordinaria potenza.
Una cornice in una cornice (il concerto è tipicamente un luogo di espressione musicale).
Quasi la descrizione della pantomima da cui deragliare al più presto, pena la subdola sudditanza dal pensiero che si è ormai conformato attorno a questioni di poco conto riguardo la musica, come ad esempio “le convergenze e le divergenze fra il gusto personale e il gusto collettivo”, “l’influenza dei nuovi modi di fruire la musica sulla produzione musicale stessa”, “le insanabili dicotomie fra arte e prodotto nelle espressioni della musica popolare”.
Sulla tavolozza delle consuetudini, la patafisica gioca un ruolo destabilizzante, con la sua capacità di sovvertire le regole e, piuttosto, di generarne delle nuove.
“Un folle letterario non ha né maestri, né discepoli” diceva Queneau. Ed è in questo quadro che ci interessa indagare. La frase di Queneau è opportunamente riportata nella quarta di copertina di un interessante libro di Paolo Albani (“I Mattoidi Italiani” – Edizioni Quodlibet), raccolta di nostrani personaggi bizzarri, esistiti ed esistenti, che hanno espresso teorie singolari nel campo del sapere. Scorrendo le biografie troviamo linguisti, astronomi e fisici, scienziati in generale, poeti, drammaturghi e romanzieri, filosofi e idealisti, trasmettitori del pensiero, addirittura quadratori del cerchio, profeti, psicologi e sessuologi, medici, biologi, economisti, politici, architetti, inventori.
Salta all’occhio l’assenza di folli tra i musicisti, né docenti né discenti, ed è proprio questo che ci suscita interrogativi nel rapporto tra musica e patafisica, tra genio bizzarro ed evoluzione in campo timbrico, ritmico e melodico. Possibile che nessun artista in ambito musicale si possa ascrivere alla categoria di quanti hanno compiuto o fatto compiere all’umanità dei veri e propri salti di paradigma alla stregua di Galileo Galilei?
Osservando le vicende che hanno scandito la storia della musica popolare, ne troviamo invece di veri pazzi visionari, sia in campo applicativo sia in ambito compositivo e strumentale.
Nel 1906 Thaddeus Cahill costruisce il primo strumento elettronico. Nel 1907 Ferruccio Busoni pubblica “Entwurf einer neuen Aesthetic der Tonkunst” preconizzando l’utilizzo di suoni dissonanti ed elettrici nelle composizioni musicali. Nel 1911 Arnold Schoenberg pubblica il saggio “Harmonielehre” (Teoria dell’Armonia) in cui propone un sistema di composizione dodecafonico. Nel 1916 Henry Cowell utilizza combinazioni di ritmi e toni impossibili da suonare per un essere umano. Nel 1920 Eric Satie compone una musica fatta per non essere ascoltata, “Musique d’Ameublement”, musica d’arredamento, la prima forma di “ambient music”. Nel 1928 Maurice Martenot inventa un nuovo strumento elettronico, l’Ondes-Martenot (su cui i Radiohead baseranno il loro salto di paradigma musicale in “Kid A” nel 2000). Nel 1927 il compositore russo Leon Termen si esibisce nel primo concerto col suo “theremin”, strumento chiave ancora oggi nella pop music (sempre Termen inventa nel 1930 la prima macchina del ritmo, il “Rhythmicon”). Il futurista italiano Luigi Russolo pubblica nel 1931 “L’Arte dei Rumori”, proclamando il rumore quale suono del XX secolo, in particolare il rumore prodotto dalle macchine, tra le quali il proprio “Intonarumori”. Sempre nel 1931 Edgar Varese propone al pubblico per la prima volta un pezzo per sole percussioni: “Ionisation”.
Compositori e inventori considerati, all’epoca dei fatti, individui poco meno che bizzarri personaggi, quindi ignorati dalle istituzioni musicali, salvo poi essere rivalutati dalla storia come precursori senza le cui visioni oggi non esisterebbero l’ambient, l’elettronica, la musica industriale o la disco music.
Stesso destino per le intuizioni degli artisti della musica classica d’avanguardia, intenti a sperimentare tecniche che, nuovamente, non sarebbero state pienamente comprese se non alla fine del secolo. John Cage compone nel 1931 “Imaginary Landscape N.1” musica per nastri magnetici, che inserisce come strumenti ufficiali nel 1946 presso la scuola per compositori d’avanguardia di Darmstadt in Germania. Nel 1948 Pierre Schaeffer crea a Parigi un laboratorio per la “musica concreta” (realizzata interamente attraverso l’utilizzo di rumori) esibendosi in concerti a tema. Joseph Schillinger pubblica l’anno seguente “A Mathematical Basis of the Arts” nel quale teorizza che la musica popolare può essere composta tagliando e incollando frammenti di musica esistente (un testo ignorato che, mezzo secolo più tardi, avrebbe dato origine al procedimento ora imprescindibile rinominato “campionamento”).
E ancora, Karlheinz Stockhausen, unendosi alla scuola musicale di Darmstadt nel 1951, comincia a comporre “elektronische musik”, mentre dall’altra parte dell’oceano il suo maestro John Cage scrive e suona musica utilizzando frequenze radio e pièce multimediali che includono l’utilizzo di un computer; e gli ingegneri elettronici Harry Olsen e Hebert Belar che, nello stesso momento, creano il primo sintetizzatore nei laboratori della RCA Princeton, il Mark I.
Gente che ha inequivocabilmente gettato un sasso nello stagno lanciando ognuno il proprio grido originale e discordante nel concerto delle consuetudini. Anche di questi, e di altri, scriveremo ancora su queste pagine, sotto diverse angolazioni, indagando e riportando ala luce qualcosa di dimenticato o sottostimato.
Qualcosa che è stato generato, volontariamente o meno, applicando i concetti della patafisica di Jarry, o semplicemente raccolto a suggestione in alcuni momenti della carriera di
artisti che tutti, più o meno, abbiamo amato – come i Beatles o i Soft Machine – o che ne hanno indelebilmente marchiato l’identità – come i Pere Ubu di Cleveland (Ohio) partoriti dal genio di David Thomas.
Perché se proviamo a cambiare il punto di vista adottato dai più, come suggerisce la patafisica, forse anche nella musica molti concetti dati per assodati trovano un’altra e più importante collocazione.
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