Tra il dono di saper vivere e la maledizione di dover raccontare. Tommaso Pincio o la Malinconia.

C’è un prezioso libretto, uscito per Garzanti nel 1990, scritto da Jean Starobinski , che si intitola “La malinconia allo specchio”. È il frutto delle lezioni sulla storia e la poetica della malinconia che Starobinski tenne al Collège de France tra il 1987 e il 1988. Per raccontare come parla il malinconico, qual è la sua condizione e come diventa personaggio, il saggista confronta testi poetici e rappresentazioni pittoriche, in particolare esamina il tema della ‘malinconia allo specchio’. È a questo libretto (e a molto altro) che ho pensato dopo aver letto “Il dono di saper vivere”, di Tommaso Pincio. Credo che, dentro la storia della malinconia, bisognerebbe inserire anche il libro di Pincio.

Dalla copertina, il volto, a metà, di Caravaggio, ci guarda. È quello ritratto nella vecchia banconota da centomila lire. Ti aspetteresti, dunque, un romanzo che racconti la storia del grande pittore, ma in questo romanzo, che potremmo definire a partire da ciò che non è, Caravaggio è lì che si sottrae mentre ci guarda, costringendoci a cambiare prospettiva, a pensare a cosa c’è dall’altra parte, nell’altra metà del volto.

Allo stesso modo, la storia, mentre si racconta, si sottrae al racconto. Di questo, però, Pincio conserva i fili, letteralmente ce li mostra. Si tratta di fili che si ‘rifiutano’ di comporre la trama. Avremo, nella prima parte, l’ordito, nella seconda, la ‘maledizione di dover raccontare’.

La prima parte. Siamo in una cella, l’io narrante, è subito chiaro, è un carcerato. Sono passati dieci anni dal giorno del suo arresto per omicidio (che, dice, non ha commesso). Osserva un abito, quello che indossava allora e che ha conservato. È un abito appena liso dal tempo, costoso, averlo comprato è stata forse la prima di una serie di scelte sbagliate. Ma è da qui che inizia la riflessione sulla propria esistenza e il racconto di un’ossessione, quella per il Gran Balordo, come preferisce chiamarlo, ossia Caravaggio. Si potrebbe pensare ad un pretesto senza timore di sbagliare bersaglio, ossia che scrivere è guardare i propri fantasmi, rispondere al bisogno di “riparare un torto, un’ingiustizia”. Impossibile scrivere dei propri fantasmi senza dichiarare il proprio fallimento rispetto alle attese che riponevamo nei confronti della vita. L’abito-ritratto del carcerato, così come il racconto-ritratto sono la stessa cosa?

Come in uno specchio rovesciato, Pincio si guarda, restituendoci uno straordinario disegno fatto di assenze. L’io narrante, dismesso l’abito di narratore, è dentro un racconto metanarrativo. È ancora quello del personaggio-uomo, delle memorie dal sottosuolo del Novecento? È, questa di Pincio, una storia di biforcazioni, di strade che si sarebbero potute prendere. Il malinconico personaggio con il quale Pincio autore è compromesso ha la meravigliosa ossessione di dover raccontare una storia che vuole fuggire al dominio dell’io. Forse di sfuggire sé stesso, finendo per moltiplicare i suoi falsi specchi. Pincio dimostra che anche quello che avremmo potuto essere non si sottrae al tempo, alla tirannia del grande assente. Ogni storia è la scrittura non solo di quello che è stato, ma anche di quello che avrebbe potuto essere. È questo il lato che ci mostra, questa parte mancante, che mentre leggiamo si scorge, come un’ombra manifesta che incombe sulle scelte fatte, su quello che sarebbe potuto accadere se avessimo percorso un’altra strada. Dunque “Il futuro che non” possiamo conoscere.

Quando l’autore lascia bruscamente il personaggio, ossia il carcerato, al suo destino (non scritto, sconosciuto), questi sta riflettendo sulla banconota che ritrae Caravaggio, interrogandosi sulle due versioni, su questioni di fedeltà all’originale. Ma la ricerca dei segni, degli indizi, pur rispondendo ad una necessità (la ricerca della verità), o meglio, ad un’ossessione, non arriva ad una forma definitiva, né è questo l’obiettivo, piuttosto risponde solo a se stessa. Cosa si cerca in un uomo che mancava del dono di saper vivere? Cosa rappresenta Caravaggio per Tommaso Pincio? Nella ricerca del vero volto di Caravaggio, del segreto della sua vita si sovrappone il volto di Tommaso Pincio. Quello che più inquieta della realtà è che, al di là di ogni differenza dei destini individuali, dei nostri abiti, nonostante l’accanirsi sull’immagine, nostra o di altri, nulla può svelarsi che non sia l’equivalente, nostro, destino. “In fondo ritratto e ritratto si equivalgono […] È una visione mostruosa, non dissimile, mi si passi il riferimento, da quella che vide Perseo nel suo scudo, anzi no, dall’assenza che riflette un vampiro in uno specchio”.

Il malinconico si specchia e quello che vede è solo il volto rovesciato della verità. Mi vengono in mente queste parole per caso lette di recente: “Ora infatti vediamo come attraverso uno specchio, in maniera enigmatica; ma allora invece vedremo faccia a faccia” (I Corinzi 13,12). Intanto, più laicamente, i fili della scrittura di Tommaso Pincio ci mostrano, con sapiente naturalezza, la fiducia nelle parole, il dono di saper raccontare.

Rosa Riggio