Ugo Berardi

a cura di Rosa Riggio

A308

Ci sono libri che restano nascosti a lungo, forse esercitando il proprio diritto a non essere scoperti, come abitanti di una terra sconosciuta, gelosi del loro posto segreto. Magari questa terra non è così lontana, è a due passi dalla propria indifferenza. Ci sono poeti che della fatica di vivere fanno un’arte, loro malgrado, cercando nelle parole non un risarcimento (impossibile), ma uno spazio in cui esistere non sia solo un sospetto. Spesso, poesia e musica abitano questi luoghi sconosciuti, legate insieme dalla memoria inconsapevole, da tracce che non hanno ancora voce, suono. Sembra, così, che poesia e musica provengano da una zona preesistente, da un’unità che trova incarnazione nei versi, nel ritmo, nella parola. È quella che Mandel’štam chiama “un’unità armonica e semantica, preesistente e trasmessa chissà da dove”. Il poeta di cui sto parlando è Ugo Berardi, nato a Roma nel 1962, vive nella provincia di Viterbo. Il libro è “Tavola degli esercizi” (Accademia Barbanera 2011). Si tratta della sua terza pubblicazione. “Tormentosi affanni”, la prima, è del 1986 e “Grondava la vita” è del 1988. Nella prefazione a “Tavola degli esercizi” il poeta spiega di aver scelto “una linea espositiva a carattere quasi diaristico”, segno di una “difficoltà compositiva”. L’opera è aperta e sottintende l’ascolto di Berg, Messiaen, Bartok, che danno alle composizioni una sorta di movimento “verso” la poesia. Risulta evidente la consapevolezza critica che l’autore ha verso la propria opera, che egli presenta come officina, come lavoro in divenire. Le poesie che seguono sono tratte da “Tavola degli esercizi”.

Ouverture
Assisto a una carenza di poiesis, considerato l’audace battere del tempo. Calcolato lo scherzo diseguale della temporalità, il fatto comprensivo dello scambio di merci, rischio come Sara di essere tramutato in sale.

*

Il cristallo che brilla
di sola luce propria
nella notte di pietra
è il verso che più soffre

*

Certe volte scrivere è il massimo della fatica.
La retorica è arte della fatica.

*

Si tirano giù le righe.
Le parole sono zolle
che non si sfaldano mai.

*

Portavo un invisibile
cilicio
che graffiava la pelle
e favoriva
il sudore; l’ira un esercizio
di bestia.
Mi affina ciò che si chiama
sacrificio.

*

Si muore
all’ombra
della ragione
desolata.

*

Movimento II
Sono barbaro e spingo le mie fattezze oltre i piani delle impalcature. È la noia a proiettarmi contro tutto.
Ascolto martiri agghiacciati nelle gabbie.

*

Movimento IV
Forse scalfito dalla storia rieccomi visigoto trastullare dello spazio cerebrale la corteccia; e luci di muse appassite danno un fremito di airone.
È passato anche per te il delirio ed arriva marmorea la ragione a confinare i tuoi segreti.