Un caso di nascondimento

Il più vicino dei miei nascondigli era ed è tuttora la tasca destra del mio cappotto, un pastrano postumo del nonno materno. Non porta ricordi pesanti, solo uno sbuffo di vento fuori moda, di giorni non vissuti, di persone mai incontrate, di pensieri estranei e intonsi. E’ proprio questa sua vecchiezza nuova che mi piace, lo porto fiero, mi sembra più moderno di un vestito firmato.
La tasca destra, dicevo, è più profonda di quanto si possa supporre dall’esterno. Vi restano tracce delle mie ore fuori casa: biglietti di treno, scontrini fiscali, spiccioli, cerini. Ma questo è solo il primo strato, quello che qualsiasi mano, se provasse ad entrare, incontrerebbe. Ciò che conta è il sottofondo, un labirinto di stoffa il cui ingresso unicamente una mano esperta – la mia – riesce a trovare. Immergo le dita nelle cuciture, rintraccio un passaggio appena accennato tra i fili. Ed ecco che si apre un intrico di cunicoli dove si ammucchiano alla rinfusa relitti memoriali di epoche remote, dove si stratificano innumerevoli segni che identifico al tatto.

Così riscopro la tua prima lettera, piena di amore nuovo e stupito di sé. Con i polpastrelli la esamino, ne riconosco la consistenza della carta, percorro i solchi appena accennati della tua scrittura. Sono pensieri rapsodici e intensi, dalle virgole rare e i punti improvvisi. La tua paura di annullamento, di fusione nella mollezza del “noi”. I tuoi guizzi quasi violenti per non perderti e restare chi eri. Il tuo affetto appassionato che mi sorprese e mi sorprende ancora. Il tuo desiderio, così lontano dal mio, di abbracciarmi per dormirmi addosso.

Così recupero un libro a metà prezzo con il timbro della seconda scelta: Il processo di Kafka, che alla fine mi decisi a leggere dopo i tuoi rimproveri. Fu occasione di una delle nostre prime discussioni sul senso della Legge, della colpa senza colpa. Poi mi regalasti la tua copia personale dei Diari, con le chiose e le sottolineature di tuo pugno, e una dedica lunghissima. Le tue parole restarono indelebili: “Com’è genio!” chiudesti, aggettivando bruscamente il sostantivo.

Senza titolo

Così riesumo una foto della mia gita a Praga, alla ricerca ingenua e geograficamente fuori luogo della tomba del “nostro” Franz. Il cimitero ebraico era un boschetto di alberi nudi disseminato di innumerevoli lapidi. Verticali, più spesso oblique, a volte quasi orizzontali, si affollavano l’una accanto all’altra emergendo da un tappeto di foglie secche: una piantagione di piccoli menhir. Il mio cappello nero, casualmente simile a quello di un rabbino, lo ritrassi a sommo di una stele. Faceva freddo, la tua mancanza mi pungeva di più ancora, eppure non trovai il modo di piangere. L’ultimo dell’anno, in birreria, bevvi sei boccali.

Continuo a spingere la mano verso il basso, frugo i tessuti e dentro la tasca è già tutto l’avambraccio. Incontro altre lettere, altri libri, altre foto, m’imbatto in lapis senza punta, pacchetti di biscotti, orologi, un mappamondo. Anche il gomito sparisce. Mi contorco in una postura di non facile scioglimento. Le dita si ostinano a cercare, individuano uno ad uno cento oggetti trascinandomi dietro con prepotenza. Sono intascato fino alle spalle. Tra poco sparirò completamente. Ogni volta è così, non ce la faccio a controllare il gorgo progressivo dei ricordi. Come sempre sarà qualche anima pietosa a domandarmi se ho bisogno d’aiuto e, alla mia risposta affermativa, si sforzerà di fare assumere di nuovo sembianze umane ad un nodo di stoffe fuori moda buttato sconvenientemente contro un muro o una colonna.