UN INNO – Fanny Howe

Quando cado nell’abisso, mi ci getto dritto, capo chino e ginocchia al petto, e sono pure rinfrancato dal discendervi in una posa tanto umiliante, lo trovo bellissimo. È in questa vergogna che d’improvviso intono un inno.
                  – Fyodor Dostoevsky

Ho viaggiato fino alla pagina dove la Scrittura incontra il romanzo.
La carta dormiva, si svegliava la notte al mio interno.

Le lettere nere erano vive
si potevano raccogliere in un materialissimo vivaio.

Non sapevo più decifrarne le intenzioni.
A quale intento si avvicendavano le loro forme?

Per sedurre o dire il vero?

Mentre gli uccelli planavano sull’acqua
come angeli panciuti

magnifiche campane suonavano per assisterne l’ascesa.

Verso l’alto! a placare la loro sete,
bevendo dalla nebbia

che il suono di campane sembrava liberarli
quanto tenerli prigionieri.

Poi giù! a frugare la risacca
e divorare l’innocente.

“Amo Dio e anche i battelli”, scrisse Kerouac.

Solo ciò che esiste può essere detto.  

Mi domando, potrà la nostra immaginazione
rimanere un tempio bruciante di candele

contro ogni prospettiva?
Contro un capezzolo o un’erezione?

La più semplice ghiandola rilassata in un cerchio 
di pelle e un liquido

che agita immagini 
alate e rifratte, come il sangue

fosse un vino psichedelico.

– – –

Certi piangono quando muore il protagonista.

Si suicidano fuori scena, lontano dalle pagine
che sfogliano durante la notte.

Certi si sacrificano ad un capriccio passeggero
e poi se ne rammaricano sulla carta. 

Ti vedo alla finestra.
Fai parte del libro che stavo cercando?

Quello che ritornava ai bei tempi andati

dove poteva saltare sopra un autobus in corsa
e librarsi all’aria aperta

tenendo stretto un deturpato romanzo nella borsetta?
Una tenda, un coltello, occhi adoranti?

Guardavo i bambini correre e voltarsi
verso Alyosha per una benedizione. 

Stava affondato nel pantano 
della vita agreste

mi piaceva sedermi con lui nell’erba.

Poi vedemmo la stessa cosa nello stesso mentre,
una mente sola.

Noi due masse, uno un libro, l’altra la mano. 

Quando Alyosha parlò ai ragazzi nella fine
ne avevo anticipato la prossima domanda e la risposta

perché formavano un singolo gesto
di bontà.

“Riusciremo?”“Riusciremo.” 

– – –

Sembrava crudele leggere di persone
che non avremmo mai incontrato. 
Ne testavamo la tempra come in sonno.
Generalmente fallivano la prova
stranieri in una mente straniera.

Venivano derisi dagli strumenti 
messi loro in mano e dall’ordine di guida.
Sinceramente in un sogno o in una storia, 
la meta è assolutamente nascosta
a quelli per cui importa.

Eoni di evoluzioni di gigli 
emersi in un singolo fiore. 
Eoni, eoni. Spilli 
e lana, gomitolo e ago, 
tutti materiali composti 
da sé e dalla circostanza. 

Fu un secolo tremendo: 
composto da esplose 
raffinerie di petrolio e oche impantanate,
pesci con le labbra serrate dalla plastica
e asfalto tra i capelli dei cuochi.
Il marcio penetrava gli spiragli. 

Le istituzioni gemono. 
Matasse di cotone sporco
dai cassonetti degli ospedali, arrossiscono.
Sbadigliando di obsolescenza
i computer si domandano

chi gli abbia caricato una così povera grammatica.
Vergini di gommapiuma
si laureano a questo sofferente dramma
in piena autonomia.
Una volta erano cellule. 

– – – 

La Storia è più che un’altra perplessa
antenata alla finestra o una reminiscenza
perversa in un capriccio della traduzione. 

Una luce di tanto-tempo-fa pulsa nel cuore
di una trota sul tavolo da laboratorio.

Una luce che ha invaso tutti i pertugi, non importa
quanto piccoli, è la luce che desidera vivere.

 

Ancora ti aspetto mio bel sole 
di pietà e giustizia. 

Se l’occidente è a est di Mosca, 
in base a dove stai andando

mi troverai mai giungendo 
da un qualche settentrione?

Guardi nemmeno più per terra?
Ricorda che la mappa è piatta, ma non lo è nient’altro. 

È il bambino nuovissimo il più antico corpo del creato?

Porta con sé più informazioni della madre?

Lo fece sua madre, sua nonna, sembro ridondante
arrivando con meno, eppure prima? 

È per questo che leggo di notte con le labbra serrate?

– – –

Il fatto è, non so se nessuno mi abbia mai sentito
nel modo in cui Nijinsky sapeva come sentire. 

O Nastasya. Niente poteva scioccare quella donna
che aveva fatto tanto male. 

Come addestrata in un teatro, numerose personalità
sciamavano dalla sua lingua. 

Questo la rende un esempio per il nostro tempo.

La ricordo bambina. 

La gonna le si era incastrata in un roveto
mentre guardava il cielo. 

Liberandosi a forza, 
dovette vedere i ragni, le formiche e il terriccio
attorno la gonna. 

Era come spiare all’interno del proprio corpo
e gridò di terrore. 

Dopo, la consolazione 
le sarebbe stata porta da un uomo cupo e bellissimo: 

venne col suo sperma
(mentre lei desiderava l’ibernazione).

Non commise suicidio quella volta, ma corse
lungo la Prospettiva Nevsky mentre cominciava a piovere,

e si fermò ad aprire l’ombrello.
In quel momento 

eravamo nell’animo una bimba
che correva a casa dalla nonna cinque piani più in alto.

Ho lasciato perdere il libro, pianto e sono andata al cinema. 

È il posto dove posso perdonare qualcuno per i suoi crimini. 

Avvelenare infanti per profitto. Harry Lime. 

Posso effettivamente perdonarlo mentre scava nella merda.

Altrimenti resteremmo per sempre insieme sulla ruota 
panoramica incastrati tra nebbia e ferro. 

Non sono che uno spettatore della sua storia sarcastica

sarebbe un incrocio tra Paul Celan e Oscar Levant
quando stiamo al nostro meglio 
e non ci è richiesta pena. 

Nevrotico, pallido, e sedotto dai canali,
ci sporgeremmo dalle banchine come fratello e sorella

tentati di essere attori.

È qui che il suo gatto e le sue scarpe
si uniranno nel buio. Come un pesce in una città moderna

scorrazza per le fogne per un lampo di Cristo.