Traduzioni
Amelia Rosselli : My Clothes to the Wind (1952) – I miei vestiti al vento in Traduzione (I)
a cura di Marco Nicosia
“My Clothes to the Wind” è un racconto di matrice autobiografica in prima persona, che prende avvio dall’episodio di una malattia della madre, l’idropisia, evidenziatasi quando la Rosselli a diciotto anni lascia Londra per recarsi in Italia dalla nonna. La morte della madre, avvenuta mentre la giovane si trovava in italia, è evocata come un fatto oggettivo, che esclude ogni partecipazione emotiva: “a mother dead is any body dead”. Nel paragrafo successivo, il terzo, un flashback riporta la narrazione al periodo della vacanza italiana, che si è poi involontariamente trasformata in residenza permanente. Il ricordo del passato però non aiuta a elaborare il lutto (“Look how past time will not collaborate with this noon’s jerks of entrails”), e nel quinto paragrafo lo spazio e il tempo si intrecciano in una ricostruzione paradossale che segue una logica altra, che ricorda la ‘narrative distortion and nonsensical explanations’ dei romanzi di Carroll, “Alice in Wonderland” e “Through the Looking Glass”, intertesti fondamentali di questa prosa. La metafora delle parole allo specchio evoca l’episodio di “Jabberwocky” in “Through the Looking Glass”; lo specchio e la metamorfosi sono anche due motivi fondamentali del testo ripresi da Carroll.
Lo scopo della letteratura, sembra suggerire l’io narrante, non è quello di riprodurre il reale: il mondo parallelo della creazione letteraria respinge qualsiasi “narrazione” e non c’è modo di razionalizzare il proprio vissuto riempiendolo di senso; non è possibile, cioè, raccontarlo, se non per frammenti scomposti. L’impossibilità di ricordare della protagonista deriva dalla mancata elaborazione del lutto che la condanna a vivere circondata dai fantasmi dei propri Morti e da quello della propria Morte. Questo nucleo tematico riprende l’immaginario dell’Amleto di Shakespeare. I genitori scomparsi sono rappresentati come spettri o cadaveri che assumono atteggiamenti persecutori nei confronti della figlia. La madre morta è accompagnata da spiriti, la sua presenza minacciosa. La parte centrale del testo, quella che è stata composta nel 1952, contiene il lamento per la scomparsa dei genitori che si rovescia in accusa ai fantasmi che le impediscono di vivere a causa del senso di colpa. Sia la madre che il padre sono accusati di aver negato il loro amore alla figlia abbandonandola.
Due immagini sono particolarmente significative: la prima, in cui il padre vende i vestiti della figlia al vento è l’immagine emblema da cui deriva il titolo della prosa. L’altra invece riguarda la madre, che chiude la culla della figlia con uno scatto come fosse una tomba. Nella versione del 1951, la conclusione del testo conteneva l’immagine, poi successivamente eliminata, del cadavere della madre: “a woman with orange painted hair rackety with the keeping of men and the curing of a mother nearly dead opened the imprisoning walls and slid my bed’s coverings to soothe to sleep as if to hide and have done with that corpse of presumptuous suffering” [una donna dai capelli tinti d’arancio strepitando per la custodia degli uomini e per l’accudimento d’una madre quasi morta aprì le mura imprigionanti e scostò le coperte del mio letto per confortare per dormire come per nascondere e mettere fine a quel cadavere di presuntuosa sofferenza]. La figlia è costretta a vivere con la presenza perturbante del cadavere della propria madre la cui sofferenza è definita presuntuosa.
La dimensione del sonno e del sogno ha un valore strutturale in “My Clothes to the Wind”: tutta la narrazione si svolge in una dimensione onirica, come accade nei romanzi di Carroll e nel “Finnegans Wake” di Joyce, altra fonte di questa prosa. È proprio attraverso il sonno che si arriva nell’epilogo alla “recognition”: “I in the unreason of sleep came to the choosing and the mingling, and to the recognition”. (Chiara Carpita, “Primi scritti”, in A. Rosselli, “L’opera poetica”, i Meridiani Mondadori, pp. 1398-1399)
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Dissidio aspro e penoso, ho sbagliato e via ho abbandonato mia madre pressoché morta mentre sedeva graziosa a letto, aveva l’idropisia. Non c’è beffa qui, non eravamo poi così crudeli ad abbandonarla, ci azzuffammo e riversammo un bacio sopra al suo sdegno. Fuori la strada era umida e appena soleggiata e le bottiglie piccole di latte tintinnavano a migliaia sul camion rosso per gli alberi brilli e per il vicinato amico ma non per io, non per me, il quesito e il seno pieno. Sgommai verso la stazione della metro e uccisi l’imbecille amour che comunque non c’è stato mai un amour, ma una spilla, un gancio, un sostituto della città vuota e vuota la madre e sogghignante il fratello e leccapiedi la serva. Infornanti biscotti tutti, e io una briciola che mai avrebbe coagulato.
Siamo dipinti adesso noi che lo chiamiamo un colpo di fortuna, una madre morta è tutti i corpi morti, la zuppa è buona quanto un bacio. Un numero indifferente di spiriti, non lei soltanto, ci infesteranno e svolazzeranno intorno nella quiete.
Dopo le timidezze con mia nonna mandai una lettera piana in Inghilterra la vacanza di due settimane doveva rantolare nel soggiorno permanente. I nostri diciott’anni quanto godimento ebbero che odorava di ambizione e orgoglio quindi tagliammo con nostra nonna e ci riunimmo al paese, urlando golosi chiacchiericci alla zia sorda fuorché affettuosa. Qui la luce è piombo fuso ma non potrebbe fondere il vuoto tenuta sottochiave. La nostra anima tossì in privato.
Sta’ a guardare come il tempo passato non collaborerà con gli scatti viscerali di questo mezzogiorno, adesso strettamente avvitati e livellati alla cupa contemplazione. Come poter esclamare, considerando l’assenza di tabulazione tranne che per un Dio? Quali ambiguità più chiare dopo la dura notte, nel sogno dei leoni?
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