Il principio di piacere. Philip Larkin.


 

Edimburgo.
Dal Royal Mile, vecchia successione di strade che collega il Castello all’Holyrood Palace, scende una via che porta a Grassmarket Square dove bruciavano le streghe e ora si trovano 12 ostriche scozzesi e del Pinot Grigio. 

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La mia libreria preferita sta al n°8 di Victoria Street, un buco, antiquaria, The Old Town Bookshop. Stavolta, oltre a una stampa anatomica, ho trovato Required Writing di Larkin; l’Ex Libris è un cesto di fiori e frutta. Quando penso ai collezionisti immagino venticinque mila libri. 

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Ho iniziato a tradurre Writing in general, non ho ripescato in rete altre traduzioni all’italiano. Mi piace quando dice che la poesia come tutte le arti è inestricabilmente legata al dare piacere. Nel giochino appartengo alla categoria di quei vecchi lettori che hanno rimpiazzato il piacere del trasporto emotivo con quello intellettuale. 
“Il gusto del pubblico è sempre venticinque anni indietro e raccoglie un nuovo stile solo quando è di seconda mano.” dal 2011 ho postdatato tutti gli articoli della rivista di diciannove anni. 

Il principio di piacere. Philip Larkin.
 

È talvolta utile ricordarci degli aspetti più semplici delle cose solitamente considerate complicate. Si prenda per esempio la scrittura di una poesia. Si costituisce di tre fasi: la prima è quando un individuo si ossessiona a tal punto con un concetto emotivo da essere costretto a farne qualcosa. Quello che fa è la seconda fase, vale a dire costruire un espediente verbale che riproduca questo concetto emotivo in chiunque desideri leggerlo, ovunque, sempre. La terza fase è la situazione ricorrente in cui la gente in tempi e luoghi differenti si allontana dall’espediente e ricrea in sé quello che il poeta sentiva mentre scriveva. Le fasi sono interdipendenti e tutte necessarie. Se non ci sono stati sentimenti iniziali, l’espediente non ha nulla da riprodurre e il lettore non farà esperienza di nulla. Se la seconda fase non è stata realizzata bene, l’espediente non darà frutti, o ne darà solo alcuni a pochi, oppure smetterà di darne dopo un istante assurdamente corto. E se non c’è alcuna terza fase, nessuna lettura riuscita, non si può proprio dire che la poesia esista in senso stretto.

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Il Calamaro a retropulsione, vista laterale

 

Quello che mostra una descrizione di questa struttura base e tripartita è che la poesia ha una natura emotiva e un funzionamento teatrale, un’abile ricostruzione dell’emozione nelle altre persone, e che, al contrario, una cattiva poesia è quella che non riesce mai a farlo. Tutte le modalità di svalutazione critica non sono altro che modi diversi di dire la stessa cosa, qualsiasi terminologia letteraria, filosofica o morale venga impiegata, e non sarebbe necessario segnalare nulla di così ovvio se non fosse la poesia contemporanea a suggerire che questo è stato dimenticato. Sembra che stiamo producendo un nuovo tipo di cattiva poesia, non del vecchio tipo che cerca di trasportare il lettore e fallisce ma un nuovo tipo che nemmeno ci prova. Ripetutamente si confronta con brani che non possono essere capiti senza riferimenti oltre i propri o la cui insipidità appagata ribadisce che i loro autori stanno soltanto ricordando a se stessi quello che già sanno, piuttosto che ricreare per un terzo. Il lettore, nei fatti, sembra non essere più nella mente del poeta, sembra debba essere qualcuno che deve comprendere e apprezzare che il prodotto finito è un successo totale; invece l’assunto ora è che nessuno leggerà e nel caso non vorrà capire o apprezzare. Perché dovrebbe essere così? Non è sufficiente dire che la poesia ha perso il suo pubblico e così non abbiamo più bisogno di considerarlo: molte persone leggono ancora e comprano poesia. Più precisamente, la poesia ha perso il suo vecchio pubblico e ne ha guadagnato uno nuovo. Ciò è stato causato dalle conseguenze di un’astuta fusione poeta, critico letterario e critico accademico (tre classi ora notoriamente indistinguibili): non è affatto esagerato dire che il poeta ha raggiunto una felice posizione dalla quale può lodare la sua poesia alla stampa e spiegarla alla classe, e il lettore è stato prevaricato avendo rinunciato al suo potere di consumatore di dire “questo non mi piace, datemi qualcosa di diverso.”. Lasciatelo ora sospirare una parola per cui non gli piaccia una poesia e verrà messo alla sbarra prima che riesca a dire Edwin Arlington Robinson. E l’accusa è grave: sensibilità fiacca, strumenti critici insufficienti o inadeguati e incapacità di confrontarsi con nuove situazioni verbali ed emozionali. Verdetto: colpevole, più le clausole sulla rieducazione mentale del prigioniero dipendente da divertimenti di massa e reattività indebolita. È tempo che qualcuno di voi ragazzoni realizzi, dice il giudice, che leggere poesia è un duro lavoro. Quattordici giorni in gattabuia. Prossimo caso. 

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Il mondo degli Abissi: Il pesce pirata
 

I consumatori paganti della poesia, pertanto, quelli che erano soliti sganciare soldi nella convinta e sicura e speranza del piacere come a teatro o alla sala concerti, si sono spostati velocemente altrove. La poesia non era più un piacere. Sono stati rimpiazzati da una squadra più umile la cui mira non è il piacere ma l’auto-miglioramento, e che ha acriticamente accettato la contesa per cui non possono apprezzare la poesia senza un investimento preliminare nell’intellettualità che, per mero caso, capita che abbia il loro tutor. In breve, il pubblico moderno della poesia, quando non fa il lavoro sporco è un pubblico di studenti puro e semplice. Al primo sguardo potrebbe non sembrare una cattiva cosa. Il poeta ha finalmente un’ascendenza morale, e la sua nuova clientela non paga solo per la poesia ma paga perché gli venga spiegata successivamente. Inoltre, se il poeta ha solo se stesso da compiacere non sarà ulteriormente handicappato dalle limitazioni del suo pubblico. E in ogni caso oggigiorno nessuno crede che un artista meritevole possa fare affidamento su qualcosa che non sia il suo proprio giudizio: il gusto del pubblico è sempre venticinque anni indietro e raccoglie un nuovo stile solo quando è di seconda mano. Tutto ciò è abbastanza vero. Ma alla fine la poesia, come tutte le arti è inestricabilmente legata al dare piacere e se un poeta perde il suo pubblico in cerca di piacere perde l’unico pubblico che abbia valore per il quale la calca disciplinata che timbra il cartellino non è un sostituto. E l’effetto sarà sentito attraverso il suo lavoro. Dimenticherà che anche se trova interessante quello che ha da dire altri potrebbero altrimenti. Si concentrerà sul valore morale o sulla complessità semantica. Peggio di tutto, le sue poesie non nasceranno più dalla tensione tra quello che lui sente non-verbalmente e quello che può avere in comune linguisticamente con gli altri che non hanno avuto la sua esperienza o educazione o percorso, e una volta mollato l’estremo della corda quello che risulta non sarà così tanto oscuro o insignificante (anche se potrebbe essere entrambi) quanto un’indolenza non realizzata, sdrammatizzata, perché avrà perso l’abitudine di verificare quello che scrive con questo particolare criterio. Dunque, nessun piacere. Di conseguenza, nessuna poesia. 

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prima esposizione del Grande Elefante
 

Cosa si può fare? Chi vuole che qualcosa venga fatto? Certamente non il poeta, che è nella posizione senza precedenti di vendere al minuto il suo lavoro e lo standard con cui viene giudicato. Certamente non il nuovo lettore, che, come lo sposo di un qualche matrimonio non consumato non immagina nulla di meglio. Certamente non il vecchio lettore che ha semplicemente rimpiazzato un piacere con un altro. Solo il romantico perdigiorno che richiama i tempi in cui la poesia era condannata come colpevole potrebbe sperare cose diverse. Ma se nei fatti il mezzo deve essere liberato dai nostri doveri e ripristinato ai nostri piaceri io posso solo pensare che debba essere disposta una reazione violenta contro le nozioni presenti, e che dovrà cominciare con lettori di poesia che si domandino più frequentemente se davvero li diverte quello che leggono, e, se no, per quale motivo continuano. E io uso “divertirsi” nel senso più comune, il senso con cui lasciamo una radio accesa o spenta. Agli interessati potrebbe piacere il saggio di David Laiches ‘The New Criticism: Some Qualifications’ (in Literary Essays, 1956); al contempo, la nota seguente di Samuel Butler potrebbe risvegliare un furtivo prurito di libertà: “Mi piacerebbe godere della musica di Schumann meglio di come faccio; oso dire che potrei fare di me un uomo migliore se ci provassi; ma non mi piace dover provare a farmi piacere le cose; mi piacciono le cose che mi si fanno piacere subito e senza doverci provare.”.

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Scena del risveglio del ragno gigante, studio n°1
 

“The Pleasure Principle” da “Writing in general”, “Required Writing”, Philip Larkin, Faber and Faber ed., 1983, traduzione di Paola Silvia Dolci.
Le immagini sono tratte dai “Carnets de croquis”, François Delarozière, ACTES SUD/ LA MACHINE, 2010.

Se adesso avete voglia di ascoltare Schumann