Storia della voce II

a cura di Giorgio Galli 

La prima volta che ho ascoltato la voce di Mascagni ho pensato due cose: che il compositore doveva essere un grandissimo sbruffone, e che quello era il modo di parlare dell’epoca fascista. Sulla sbruffoneria avevo ragione; sullo stile fascista, sì e no. E’ vero che Giuseppe Giacosa e Giacomo Puccini, nelle loro registrazioni rispettivamente del 1900 e 1910, risultano molto meno altisonanti; tuttavia il loro stile non è troppo dissimile. Entrambi parlano a voce lenta e piena, scandendo le parole, separandole l’una dall’altra e quasi fermandosi su ognuna. A un primo ascolto quel modo di parlare può sembrare inespressivo e monotono, perché l’intonazione non conosce incrinature e vibrazioni, rimane costante. Bisogna farci orecchio per scoprirne l’interna musicalità.

Abbiamo fatto un salto dagli Stati Uniti all’Italia. Ma possiamo farne un altro fino in Russia. Nel 1908 il conte Lev Tolstoij si fa incidere mentre legge un suo racconto, e due anni più tardi perfino lo zar Nicola II lascia una breve testimonianza della propria voce durante una parata militare. Entrambi usano una voce stentorea e una prosodia intensamente musicale. La loro pronuncia è al limite del canto. Useranno un tono diverso i comunisti, quei realisti antiromantici, sovvertitori dell’ordine costituito, quando prenderanno il potere radendo al suolo la vecchia società con tutto ciò che rappresentava? No, amici miei: la voce di Troskij in esilio è solenne e romantica -più in francese, lingua che conosceva bene, che in inglese, che padroneggiava meno- e Majakovskij sembra lanciare maledizioni o incantesimi quando declama le sue poesie per il grammofono. Se ci spostiamo nei Paesi di lingua tedesca, e prendiamo in considerazione gli anni tra il 1900 e il 1930, ci accorgiamo che il più pacato di tutti è l’imperatore Francesco Giuseppe. Lo scrittore satirico Karl Kraus, in un filmato del 1930, urla i suoi scritti satirici con una mimica minacciosa e agitando nell’aria il pugno chiuso. La voce di Sigmund Freud, più vecchio di Kraus di due decenni, è stata trasmessa una sola volta dalla BBC nel 1938, quando lo psichiatra era in esilio in Inghilterra a causa dell’ostilità dei nazisti. In un inglese dal fortissimo accento tedesco, il padre della psicanalisi parla con cadenza lenta e solenne, ma senza strepito, con un incedere più simile a quello di Francesco Giuseppe che a quello di Karl Kraus. Si può dire, pur se con la dovuta cautela, che dalle incisioni tardo-ottocentesche rileviamo un tono eroico e lirico, mentre nei primi decenni del Novecento si afferma un tono più guerriero -il che è in linea col corso generale della Storia in quegli anni. 

Le voci degli attori testimoniano un simile passaggio dal tono lirico a quello marziale. Sarah Bernhardt, nata prima di metà Ottocento, nelle incisioni degli anni Dieci e Venti, più che recitare, canta senza mai abbandonare il vibrato. All’epoca quel vibrato interminabile doveva sembrare struggente; oggi, alla lunga, fa l’effetto di una pecora che bela. La musica cambia -è il caso di dirlo- con gli attori nati a fine Ottocento. Perfino Charlie Chaplin, quando fa da narratore per la seconda edizione de La febbre dell’oro, racconta le disavventure del tenero Charlot con un piglio più adatto a un raduno dei Cavalieri dell’Ordine del Grand’Alce Imperiale che alla storia di un povero vagabondo.

Ma permettetemi un ricordo personale. In terza media, la mia insegnante di Storia fece ascoltare in classe le voci di tutti i leader politici durante la Seconda guerra mondiale. La sfida era di riconoscere dal tono della voce quali leader erano democratici e quali no. Quali sembravano fomentare il popolo e quali ragionare con il popolo. Mussolini e Hitler erano fuori questione, troppo riconoscibili. Ma la voce di Roosvelt non sembrava troppo democratica. “Dev’essere lo stile dell’epoca”, si giustificò la professoressa. In effetti, l’unico leader democratico, in base alla sua voce, pareva Stalin. La differenza fra “lo stile dell’epoca” e il nostro rendeva inintelligibili le intenzioni espressive dei parlanti.

Non saprei dire di preciso quando è iniziato il cambiamento. I film sembrano stabilire una prima linea di demarcazione attorno al 1938, e una più evidente verso il 1955. A partire da quest’ultima data, prevale una prosodia più intima e rilassata, che dura fino all’affermarsi dell’informalità sfacciata che trionfa dal 1968 in poi. C’è da stupirsi? Il mondo, dopo la guerra, è stanco di marzialità e di toni eroici; è desideroso di godersi il proprio intimo e di vivere in pace. Ai valori pubblici si sostituiscono quelli dell’interiorità, al dovere subentra l’intrattenimento, ad autodisciplina e fierezza si preferisce una sempre maggiore naturalezza. E si arriva ai giorni nostri, quando una certa fragilità è percepita come piacevole e rassicurante e una voce più stentorea può apparire supponente e arrogante. Il parlare di un tempo era un parlare all’esterno. Si è passati a un parlare più interiore, e ci fa strano immaginare che i personaggi di Dostoevskij, che sembrano parlarsi fra loro in tono di confessione, usassero nella concezione dell’autore toni declamatori. Fino a un certo periodo, piaceva alla gente ascoltare al cinema, alla radio o in TV persone che avevano qualcosa in più di loro. Oggi ci piace ascoltare persone come noi, fragili ed esitanti. Dopo aver visto le catastrofi scatenate da dittatori che si credevano superuomini, il mondo ha deciso di imboccare un’altra strada. Non immune, come ci insegna la cronaca, dal rischio di una dittatura dell’uomo comune, di un autoritarismo dei mediocri. Oggi ci piace che un politico o un personaggio pubblico esitino un po’ mentre parlano, e che usino un tono informale. Ci piace che qualcuno si corregga mentre parla perché così vediamo che ci pensa, che cerca la parola e l’idea giuste, che desidera essere più profondo e preciso possibile. Ci piace vedere il processo del pensiero, mentre in antico il processo del pensiero si tendeva a nasconderlo e a mostrare soltanto il risultato.

[continua…]