Disturbi di luminosità: il dolore selvaggio

Thomas Bernhard, in Perturbamento, scrive che la lettura è nemica di chi deve concentrarsi su di sé. Io arrivavo da uno di questi periodi in cui si è troppo pieni per accogliere davvero una lettura, quando mi sono trovato fra le mani questo libro, Disturbi di luminosità di Ilaria Palomba, e l’ho letto di volata. Avevo cercato di comprarlo, ma era fuori catalogo, e me lo sono fatto prestare dall’autrice. Sui motivi per cui è uscito di catalogo non mi pronuncio, gli editori hanno le loro ragioni che, come il cuore di Pascal, neanche loro conoscono; ma, da lettore, credo che meriterebbe una ristampa.

Dire “di cosa parla” Disturbi è impossibile: è il monologo di una mente turbata, di una donna quasi trentenne con un disturbo borderline di personalità, che coltiva aspirazioni di purezza e quasi di santità, che conduce una vita scandita da rapporti ossessivi e feroci con uomini appena conosciuti a cui permette di farle di tutto, spinta dal desiderio di annullarsi, di dimenticare la sua identità, di essere schiava, posseduta, sottomessa, di procurarsi dolore. Una sofferenza scaturita da uno stupro subito ad appena dodici anni, che lei ripete e tenta di purificare in un rituale che non arriva mai alla catarsi. Una donna colta, che è poetessa, scrittrice, performer, che non sopporta la vita e aspira all’estasi nel senso etimologico dell’uscire da sé, e la trova nelle droghe, nella poesia e nell’orgasmo; che al pari della purezza e del sacro ama il degrado, la violenza, i rave party; che aspira alla morte -e l’orgasmo è una piccola morte. Tutti noi che abbiamo un io ingombrante aspiriamo a liberarcene, ciascuno a suo modo. Poco prima della fine, l’io narrante -che non ha nome e dialoga col lettore rivolgendoglisi direttamente- esprime il desiderio di dissolversi in un Tutto che è anche nulla.

Non siamo di fronte a un romanzo: l’autrice lo scrive nella prima pagina: “Il testo che stai per leggere non è un romanzo. Immaginami mentre ti scrivo. Sei di fronte a me. Mi sei addosso. E io ti amo. Ti odio. Il testo che stai per leggere è il viaggio nell’inconscio di una persona mentalmente disturbata. Non posso dirti quanto di tutto ciò sia vero e quanto sia frutto dell’incubo. Forse, leggendo, ti perderai nella mia mente. A te scegliere se proseguire”. Palomba, a voce, definisce questo libro un poema, e ha ragione: è simile a Inferno di Strindberg, o a Mosca sulla vodka di Erofeev: è un nastro attaccato al pensiero di un essere sofferente, che sembra riportare il suo discorso interiore fedelmente, senza elaborazione -tanto è riuscito il lavoro sulla forma da nascondere le tracce di se stesso. Qua e là si trovano alcuni luoghi oscuri, difficili da comprendere se non si conoscono gli altri lavori dell’autrice, o se non si è avuto modo di ascoltare certe storie dalla sua voce -perché Disturbi, come la maggior parte dei libri dell’autrice, ha una fortissima base autobiografica.

Tanto è focalizzato sulla protagonista questo libro, che i restanti personaggi sono poco più che ombre: su tutti domina Narciso, figura affascinante e inquietante, che infligge alla protagonista tutta la sofferenza che cerca, più quella di non essere l’unica sua donna; che le ripete “Sei mia”, “Mi appartieni” mentre la sottomette in un rituale di piacere e di dolore. Ma il libro è anche il rovescio narcisistico di questa medaglia d’annientamento e sottomissione, perché mentre scrive Ilaria sembra dire al suo lettore “Sei mio”, “Mi appartieni”. L’io narrante vuole essere adorato, beatificato, essere santa e maledetta, dea e meretrice.

Diviso in capitoli brevi come lampi, Disturbi interroga il lettore sui suoi disturbi, sul suo narcisismo, sul suo desiderio di estasi e di morte, su quanto è ingombrante il suo io, sulle volte che ha detto anche lui “Mi appartieni”, “Sei mia” –io, lo confesso, l’ho fatto.

Oggi Ilaria è una splendida donna di trentasette anni, più in equilibrio di quella che scriveva quest’opera, ma sempre senza pace. In fondo, apparteniamo entrambi a una specie che non cerca la pace, ma la pienezza. Non desidero per me una vita serena o felice, ma una vita piena. “Io pretendo un mondo all’altezza della mia immaginazione”, scrive Ilaria, e lo scrive per molti di noi. Usciti da queste pagine si è scossi, si è succhiata la vita fino al suo midollo d’orrore -perché la vita ha una periferia stupenda, ma un midollo d’orrore- e però si è anche liberati, come si è liberati uscendo da certe pagine di Bernhard e Cioran, che, facendoci attraversare l’abisso, rendendocelo affascinante, ce ne salvano.