L’origine impossibile: Fonti di Sacha Piersanti e Ludovica Bove

a cura di Giorgio Galli

 

Molti molti anni fa, quando vidi il Satyricon di Fellini, lo trovai un errore: Fellini aveva tradito Petronio, mi dissi, non solo il realismo di Petronio, ma quel presto, quel ritmo gaio e affrettato di cui Nietzsche nella Gaia scienza lo dichiarava maestro, sostenendo che addirittura non si potesse tradurlo in tedesco. Adesso ho corretto in parte la mia visione d’allora: certo, Fellini ha esagerato, ma il mondo classico lo si può rievocare oggi solo in sogno: è un mondo fatto d’oggetti che conosciamo per le testimonianze fossili dell’archeologia, un mondo di cui sopravvivono i segni incompleti che solo immaginazione e conoscenza possono ricondurre all’originario splendore. I frammenti d’Archiloco, d’Alceo, di Mimnermo, Pindaro, Anacreonte conservano la loro potenza anche se sono frammenti. La civiltà letteraria è arrivata a noi con forza, i suoi frammenti sono pezzi di cielo azzurri. Era appassionante, da ragazzi, scoprire da quali innesti di civiltà e suoni mediterranei e iperborei era nata la lingua ellenica, quali fiumi carsici vi erano confluiti, quali alberi s’erano innestati sul suo tronco, e quali tracce le società antiche, i riti rurali, le parole pelasgiche vi avevano lasciate. La cultura greca aveva ordinato un vulcano attivo in una geometria talmente perfetta da conservare uno spazio programmato per le imperfezioni. Anche la vita della polis funzionava così: da una parte l’ingegneria sociale di un ordine gerarchico opprimente, dall’altro i rituali in cui si doveva lasciar esplodere la follia, rituali orgiastici, sanguigni. Da una parte e dall’altra: Οἱ μὲν, οἰ δὲ. E il teatro tragico come momento in cui tutte le forze contrarie simulano la loro lotta per spegnere nella liturgia il loro tremendo dissidio, ripristinando una nuova e breve pace. Ma di tutta questa ardente costruzione resta solo la traccia di lingue di cui sappiamo significati e strutture ma di cui s’è perduto il suono… In effetti non ho mai capito perché le storie d’Italia inizino con l’antichità romana: il Medioevo è il vero capostipite del mondo d’oggi e ci separa irrevocabilmente dall’età classica.

Una risposta a tutti questi interrogativi viene da Fonti, lo spettacolo teatrale di Sacha Piersanti e Ludovica Bove, con musica di Lorenzo Bove, andato in scena al Teatro di Documenti a Roma il 24 maggio. In un ambiente spoglio, simile a un sotterraneo o a una grotta, con luci misteriose rosse azzurre e verdastre e un tappeto sonoro che ondeggiava tra le atmosfere di Vangelis, ritmi rock come pietre che si aprono e struggenti melodie prese forse dalla tradizione popolare di qualche Paese dell’Est, Sacha Piersanti e Ludovica Bove si movevano lentamente, ieraticamente, salmodiando versi latini e greci -letti con la pronuncia restituta– e versi italiani. Non pareva, il loro, uno spettacolo di cui era dato il senso, ma una continua e mutevole ricerca di senso, perennemente insoddisfatta per natura, che sparigliava le differenze tra io e tu, fra io e mondo, inafferrabile antichità e “innominabile attuale”, fino a una dissolvenza conclusiva che poteva far pensare alle ultime battute della Nona di Mahler, o all’anelante disincarnato “Ewig…Ewig” (Eternamente… Eternamente) con cui si chiude il Tristano e Isotta di Wagner: una conclusione sospesa, ma nel segno della morte, una morte ch’è anche rinascita in altro. Era qualcosa di totalmente altro, eppure tremendamente vicino alla tragedia greca così come doveva essere davvero nei teatri d’Atene. Il teatro tragico era una rappresentazione sacra e tribale. Se vogliamo rivedere la tragedia greca, è tra gli Yoruba africani che dobbiamo cercarla -come ci ha insegnato Wole Soyinka in Mito e letteratura nell’orizzonte culturale africano– non nei teatri moderni dove l’Antigone viene attualizzata e Creonte è in divisa da orbace, o nelle troppo classiche rappresentazioni in cui la modernità imbriglia la presenza dell’abisso.

La letteratura ci ha trasmesso tutto questo perché ci ha tramandato in tutto il suo potere la lingua greca, e nella lingua noi possiamo ancora vedere qualche scampolo di questa incredibile potenza. Ma la civiltà visiva non ci ha trasmesso il suo linguaggio: i reperti visibili sono una melanconica traccia di una civiltà che mai fu melanconica. In Fonti, questo riandare alle origini è evidente fin dal titolo, e c’è al tempo stesso la consapevolezza che quelle origini sono irrecuperabili, perché contaminate dalla Storia.

Grandioso il lavoro dei due autori/attori, calati nelle profondità del linguaggio e del gesto, apparentemente per virtù mesmerica, in realtà per continuo e rigoroso studio. Eccellente anche la scelta del teatro, che si prestava ad evocare mistero e rito. Perfetto il dosaggio sonoro, che, come in certo cinema attento ai valori poetici, non permetteva sempre di udire ogni parola, ma ricercava piuttosto di tener vivo il senso intimo di quella liturgia. Chi scrive storie ambientate nel passato sa spesso che bisogna aderire alla verità poetica piuttosto che a quella fattuale, sicché alla fine i personaggi reali siano vivi come creature di fantasia, e la verità storica ricca come una leggenda.