Cristina X

a cura di Giorgio Galli

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Firenze, 8 settembre

Caro,

mi dispiace che vi siate dovuti immergere in tutto questo dolore. Vorrei tanto conoscerla, Ilaria. Mi ricordo quando mi hai raccontato che da piccola era così povera che mangiava polpette di pane e che a sedici anni è dovuta andare a lavorare. Io non sono un’autodidatta, sono semplicemente poco istruita. Ammiro gli autodidatti perché hanno un’energia che io sento di non aver avuto. Ho cominciato anch’io a lavorare presto, avevo ventun anni quando aspettavo il mio primo figlio – poi l’ho perso, ne ho persi tre prima di avere Jacopo. Io e Alfredo ci stavamo per separare perché ogni aborto segnava una tacca sulla nostra unione. Poi è arrivato Jacopo, un’altra tragedia che però ci ha uniti. Una mia amica ha studiato all’università fra mille fatiche, il padre la picchiava perché studiava, la ha ridotta quasi in fin di vita dalle botte una volta e lei faceva tanti lavori per pagarsi gli studi. Era scappata di casa. Io non ho mai dovuto affrontare tutto questo, mio padre era stronzo ma non violento, mi voleva bene e sono cresciuta libera, in mezzo alla strada, nella natura, come una ragazza degli anni Quaranta. Semplicemente non ero granché a scuola – non mi consideravano molto sveglia, anzi perlopiù dicevano ch’ero stupida, e che era meglio mandarmi a lavorare presto. Ho cominciato facendo la badante, solo più tardi ho iniziato a studiare da infermiera. Lavoravo e studiavo, ma studiavo con calma, senza i drammi che doveva affrontare la mia amica. Lei si è laureata in Lingue e letterature straniere e oggi è una splendida insegnante. È anche una poetessa, devo spedirti un suo libro, sono sicura che lo troveresti affascinante.

Vado, Jacopo mi chiama. Ti bacio gli occhi.

Lore

 

Roma, 10 settembre

Sì, Ilaria ha fatto tanta strada. Da piccola, quando ha avuto il primo ragazzino, i genitori sono andati a casa di lui e quando lei lo ha lasciato la hanno messa in punizione. A modo loro la hanno amata, ma troppo a modo loro. Quando ha cambiato città, dicevano che era andata “a fare le malazzauni”, a fare le cose losche. Per loro allontanarsi dalla famiglia era un delitto. Ricordo che il padre mi fece una predica perché mi ero fermato con degli amici, un giorno, prima di tornare a casa, e lui disse che l’uomo deve tornare subito dalla donna a casa dopo il lavoro. È una tipica famiglia del Sud emigrata a Milano negli anni in cui si emigrava a Milano. A sedici anni lei lavorava come segretaria in uno studio di grafica pubblicitaria, ma di notte leggeva e studiava. Leggeva di nascosto e comprava libri di nascosto, anzi li rubava, perché per i genitori la lettura era tempo perso e se la scoprivano la mettevano in punizione. Ha fatto veramente tanta strada e sono fiero di lei.

Io non sono mai vissuto e mai cresciuto. Sono rimasto un bambino viziato. La vita la conosco solo attraverso la scrittura. Mahler quando morì disse “Ho fatto una vita di carta”. Si può dire lo stesso di me. Ho la malinconia di chi scrive su altra scrittura, di chi non conosce il contatto fertilizzante con la vita. Forse per questo sono uno scrittore mediocre. Moravia diceva che uno scrittore non ha pregi o difetti, ma  maggiore o minore vitalità. Io di vitalità ne ho poca.

Scusa questa lettera deprimente, la prossima volta ti scrivo quando sto un po’ più su.

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