IL BIANCO E IL NERO IN TEATRO

Scelgo di non porgere a Francesco delle domande ma di sottoporgli dei punti da toccare, degli ‘appuntamenti’ per un discorso che rimanga libero, essenziale e contemporaneamente sfaccettato, così da inoltrarci con maggiore estensione nel suo percorso di artista. Con la sua presenza si rende interessante approfondire un argomento-segno, in particolare: “il Bianco e il Nero in Teatro”, come nucleo dal quale si snoda poi tutto un vedere e un sentire, ed è appunto in arte Ozarzand ad offrirci qui con amichevole partecipazione la propria storia, per accordare tale intenzione.

Gli esordi da regista, le scelte; prime operazioni teatrali.

Anni preziosi di apprendistato con il regista Giuseppe Di Martino, Direttore della Scuola del Teatro Stabile di Catania, che è stato per me un padre teatrale; poi l’Accademia “Silvio D’Amico” a Roma, nel corso di regia di Andrea Camilleri e maestri quali Ferrero, Pressburger, Ronconi, Siciliano, Guicciardini, Delcampe, Musati, Povoledo, Terni, Fabbri, solo per citarne alcuni. Un percorso impegnativo e affascinante di altissimo livello durante il quale ho potuto sperimentare, apprendere, sviluppare potenzialità e conoscenza, creatività. Grazie ad Andrea, che mi ha incoraggiato e sostenuto, ho potuto anche portare avanti la mia passione per la scrittura e, dopo il saggio del secondo anno su La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard, mi sono diplomato con uno spettacolo su un mio testo, Filottete, un’astrazione. Da lì a seguire, il mio percorso di autore e regista, a volte anche attore.

Il pensiero, il concetto del ruolo di regista in teatro, secondo il giovane Randazzo.

Per me la regia è un atto continuo di ricerca alchemica di composizione e creazione, a tutto campo. Tutto concorre al mio totalizzante immergermi in una partitura totale composta dei vari aspetti: testuali, progettuali, sonori, musicali, coloristici, scenografici, gestuali, visivi e intellettuali; tutto insomma, ed è proprio questo dovere e volere armonizzare e comporre che conduce il mio lavoro di regia. Un mix tra la maieutica e la creazione di un “Golem” che è lo spettacolo, un essere che avrà vita propria e del quale mi assumo la paternità, con il rischio della sfida e l’incoscienza del rischio che mi si ritorca contro, o che più felicemente sia compiutamente il sogno che avevo sognato, la visione che avevo visto, viva e presente, mia eppure altro da me.

Il linguaggio utilizzato nelle opere drammaturgiche; percorsi di ricerca affrontati.

Il mio linguaggio non è unico, ma dicono, fortemente riconoscibile. Prevalentemente la mia lingua è asciutta, essenziale, in scansioni che tentano la mimesi del parlato, nel tentativo estremo di imprimere sulla carta una partitura che deve prendere vita attraverso l’attore, il personaggio e in questo senso ogni personaggio ha il suo linguaggio. I miei testi appaiono come in versi, perché inevitabilmente, l’impostazione, diciamo così, ‘grafica’ della scrittura si rende attraverso strutture essenziali e necessarie quali quelle della scrittura poetica, intesa però in senso “antropologico” come diceva Brodskji e non in senso letterario, scevra cioè da ogni compiacimento letterario o romantico. Questo esige un lavoro enorme in fase di elaborazione e sintesi mentre scrivo. Il risultato è una partitura chiusa e aperta allo stesso tempo. Chiusa, perché appare fortemente strutturata, aperta, perché l’interprete è chiamato a entrarvi e nel suo respiro, nel suo battito cardiaco e mentale è chiamato a riscriverla, agendola in totale libertà creativa.

Bianco e Nero. Bianca la pagina di carta o la pagina virtuale, sostegno del pensiero letterario.

La pagina bianca, cartacea o virtuale, è un maelström, mobile, spaventoso, risucchiante nel quale t’immergi, ti frantumi, e ne vieni fuori trasformato. In bene o in male, dipende dai segni che sei riuscito a imprimere nella lotta, dal senso di liberazione, nei casi migliori, o di tormentosa inquietudine, in altri. Il bianco per me è spaventoso, per nulla confortante, anche se masochisticamente seducente, ammaliante, per la sfida che nasce tra me e il foglio. La cosa più difficile non è segnare la pagina bianca con delle parole scritte, questo, bene o male sanno farlo tutti; la vera hybris dello scrittore è che deve, imprimendo il foglio creare la perfetta pagina bianca nel lettore e far sì che attraverso di lui, scaturiscano le proprie parole come necessarie, essenziali, iconiche, le uniche possibili, perfette. Ogni scrittore aspira a creare un proprio geroglifico o un proprio ideogramma che racchiuda tutto il mondo, tutte le storie, tutti i pensieri, tutta l’umanità. È impossibile, perché appunto, sarebbe bianco, ma obbliga ad una tensione creativa, espansa eppure distillata, dalla quale soltanto possono scaturire testi che abbiano una loro verità d’esistenza.

Nero lo spazio misterioso del teatro.

È caldo, magico, eleusino… É lo spazio del “Fiat lux!” Dove si può creare tutto partendo dal niente. Un teatro buio, nero, dei passi, lo sfrigolìo di un fiammifero che si accende, un volto che appare, una bocca respira parole, un corpo scolpisce azioni, comincia qualcosa di estremo, affascinante, una genesi che ci avvolge e ci riflette.

Nella creazione teatrale, l’oscurità da cui tutto scaturisce, provoca un senso di inebriamento fantasmatico. Tutto è possibile, tutto può essere dato e creato, basta dirlo e agirlo, lo si dichiara ed esiste, e persino l’errore, l’inciampo, l’accidente riescono per un attimo enormemente presente ma volatile e fugace, ad esistere e consistere, nel paradosso assoluto di una finzione convenevolmente (non convenzionalmente) ricambiata tra attori e pubblico. Quando accade è perfetto, purtroppo dura meno della vita di una farfalla.

Bianco e nero nel futuro del teatro, la propria identità; fotogrammi ed evoluzioni di un ‘non sistema’ infinito.

Il teatro non ha futuro. Nel senso che è un presente che si genera e rigenera sempre. Ha attraversato, attraversa e attraverserà sempre l’umanità, la sua storia, la sua insopprimibile necessità di comunicazione e interpretazione dell’uomo sull’uomo, verso l’uomo. Ogni bambino è un teatro fantastico, ogni vecchio è un teatro della memoria, ogni persona rappresenta in sé una drammaturgia naturale e straordinaria. Novalis nei suoi Frammenti scrive: “Il teatro è l’attiva riflessione dell’uomo su sé stesso”, sic et simpliciter. Sottolineo “attiva”.

I consensi ottenuti, i premi ricevuti.

Il termine ‘consenso’ purtroppo racchiude in sé la vulgata accezione di pedissequo, condiscendente. Un artista che cerchi consenso, è morto. Questo paese è in rovina perché il “consenso” è diventato l’unico senso possibile. Bisogna cercare il dissenso, lo spostamento dal punto di vista comune, ritrovare una necessità parmenidea, sempre in divenire. Non è mai comodo, ha un prezzo alto, in termini di vita dell’artista, ma l’arte questo esige, se no, è mero e superficiale intrattenimento, qualcosa che senza il consenso non esiste. I miei lavori sono stati accolti a volte bene, qualche volta straordinariamente, altre volte con fastidio o rifiuto. Mai con condiscendenza, e questo alla fine è quello che volevo, che voglio: creare qualcosa che in positivo o negativo, muova reazioni in chi le fruisce.

Premi ne ho avuti tanti, per non essere tedioso, ne cito solo due:

il Premio Ugo Betti l’ho vinto con un testo scomodo e spiazzante: Otello, il nìvuru di Mazzària che era una sfida e una scommessa. L’avevo già messo in scena con grandi riscontri di pubblico e critica, il premio è stato un suggello onorifico. Il Premio Candoni lo vinsi nel lontano 1995, con un testo contro la xenofobia, Per il bene di tutti, mai stato rappresentato in Italia, nonostante il premio, la pubblicazione e la promozione ma che, dopo molti anni, è stato tradotto in diverse lingue e rappresentato in Croazia, Francia, Cile. Non servono a molto i premi, soprattutto in Italia, ma, è inutile essere ipocriti, inzuccherano l’ego e ogni tanto fa bene.

L’azione personale nella messa in scena, in relazione all’apporto dell’attore diretto da Randazzo.

È un’azione totale, coinvolgente, simbiotica. Amo e detesto gli attori, non alternatamente ma simultaneamente. È una passione catulliana! Sempre nei miei lavori, pur essendo marcatamente riconoscibile la mia mano, tutto converge e si fonda sulla certezza che la mia visione creativa deve diventare quella degli attori, non attraverso una semplice esecuzione bensì attraverso un’azione comune di assorbimento reciproco ed energie creative generosamente investite.

Ipotesi di un Risorgimento per il nuovo millennio.

Canterei questa:

Alle armi, cittadini, Formate i vostri battaglioni Marciamo, marciamo! Che un sangue impuro Bagni i nostri solchi! Che vuole quest’orda di schiavi, Di traditori, di re congiurati? Per chi questi ignobili ostacoli, Questi ferri da tanto tempo preparati?… Alle armi, cittadini,…

La Marsigliese.. L’Internazionale sarebbe meglio, che ne pensi? No. Meglio di no, diciamo che la penso come Mario Monicelli, rimandiamo alle sue ultime interviste. Ah! Ci sarebbe Vasco Rossi… nemmeno… Battiato?… Sto facendo una playlist, mi rendo conto.

Il dialogo con Ozarzand si conclude con un buon sorriso. Abbiamo avuto occasione di ben soffermarci sui suoi pensieri, le volontà, la sua ricerca artistica. Conosciamo meglio così un’individualità che vive l’arte nel quotidiano, nel giorno di sempre, nel sonno, nel passo, nel dire immediato e mantenuto, sia nel fermare sia nel sospendere un passo che svanisce e poi ritorna; arte assunta come entità integrante dell’essere uomo. Dell’essere, in questo caso, un artista.

Intervista a Francesco Randazzo Ozarzand a cura di Marta Lìmoli 

 

“J&H” demo dallo spettacolo from J&H Doppelgänger Suite 

“J&h” DALL’11 AL 23 OTTOBRE IN SCENA A ROMA AL TEATRO DELL’OROLOGIO, DA APRILE A PALERMO AL TEATRO LIBERO