Daniela Silvi: la forza sorgiva della forma

a cura di Giorgio Galli 

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Nella mia terra, l’Abruzzo, c’era una pittrice contadina. È morta nel 2018, si chiamava Annunziata Scipione. Dipingeva i suoi sogni, o scene ricordate, e come molti naïf aveva il dono di una grande concretezza abbinata a una rigogliosa vena fantastica, con effetti di grande poesia. La fotografia di Daniela Silvi ha un’analoga potenza onirica e realistica. Daniela fotografa il suo corpo e il suo volto: il corpo e il volto di una donna che di mestiere fa l’addetta alle pulizie, un corpo e un volto lontanissimi dai crismi patinati dell’estetica odierna, e però dotati di una presenza carismatica e di una primordiale forza erotica.

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Daniela è largamente inconsapevole della sua arte. Se ne considera un’apprendista, e non cerca visibilità. È una donna molto riservata. Schiva, priva di affettazioni, esercita la sua umile professione con fierezza. Pulire per lei è prendersi cura della terra in cui abita, dei luoghi su cui cammina. È una terragna Proserpina che passando sul corpo della terra la ripulisce dalle incrostazioni e riporta alla luce il suo splendore. Fermiamoci a riflettere un momento: non è questo esattamente il lavoro dell’amante? Passare sul corpo della persona amata con gentilezza e vigore, e pulirlo dal dolore dei giorni per farlo rinascere in bellezza?

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Daniela è radicata nella terra. I suoi nudi non sono mai esibizionistici, nel suo bianco e nero c’è una genuina severità. Un grande afflato umano attraversa le sue creazioni: si direbbe una forza eroica dell’amore, una tenerezza che è esercizio rigoroso di solidarietà attraverso la forma.

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La forma è la più alta espressione della pietà umana: le altre non sono meno importanti, ma durano il tempo di un gesto, al massimo di una vita. La forma invece, incardinata in un’opera, è un atto di umanità che perdura. E le foto di Daniela sono atti di profonda umanità. Sono nude non solo perché mostrano un corpo nudo, ma perché sono scarne, povere di elementi esteriori.

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Un altro elemento è centrale nella fotografia di Daniela, ed è il mistero. Lei non cerca il mistero: lo incarna. Preferisce ritrarsi in penombra o al buio, vestita di abiti scuri, e mostrare un corpo senza trucco, senza smalto, il corpo di una donna reale che lavora, che non è istruita -ma ha la profonda cultura di chi si professa ignorante- e che tuttavia è così radicalmente femminile da avocare a sé tutta la complessità dell’essere donna.

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Una donna, però, dai tratti duri, scolpiti, quasi mascolini. C’è nella sua figura tutto l’inconoscibile dramma della separazione originaria fra i sessi, tutta l’aspirazione dell’eros a compiersi nel diventare una cosa sola con l’opposto.

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Guardando queste immagini, si prova un rocciso affetto per la persona che le ha realizzate, e si resta ammirati dalla semplice potenza della sua arte.

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