SYLVIA PLATH, PAPINO CARO

“Daddy”, 12 ottobre 1962

traduzione a cura di Marco Nicosia

Non calzi, non calzi

più — nera scarpa

in cui ho vissuto per trent’anni

come piede, povera e bianca,

osando a malapena respirare

o dire Ecciù.

 

Papino caro, io dovevo ucciderti.

Sei morto prima che ne avessi il tempo —

tu marmo pesante, sacca colma di Dio,

orribile statua dall’alluce grigio

enorme come foca del Carolina

 

e una testa nell’Atlantico mostruoso

dove il verde oliva ricopre il blu

nelle acque della splendida Nauset.

Intenta a pregare per recuperati, io.

Ach, du —

 

In lingua germanica, nella città polacca

interrato dall’onda delle guerre —

e guerre, e guerre, e guerre —

ma è ordinario il nome della tua città.

Il mio amico polacco dice che

 

ce n’è una dozzina o due

e mai avrei potuto dire dove tu

hai messo il piede, e la radice,

e mai avrei potuto parlare con te.

La lingua intrappolata al mio palato.

 

Intrappolata al cavo barbiglio —

Ich, ich, ich, ich,

potendo parlare a malapena.

Pensavo che ogni Germanico fossi tu.

E la disdicevole lingua

 

una locomotiva, una locomotiva

via come un’Ebrea, io — ciuff ciuff.

Un’Ebrea a Dachau, Auschwitz, Belsen.

Cominciai a parlare come un’Ebrea —

e penso potrei essere una buona Ebrea.

 

Non sono poi così pure o veritiere 

le nevi del Tirolo, la birra limpida di Vienna.

Con la mia antenata gitana e la mia strana fortuna

e il mio mazzo di Tarocchi, e il mio mazzo di Tarocchi

potrei essere un poco Ebrea.

 

Ho sempre avuto terrore di te,

con la tua Luftwaffe, il tuo barbaro ciarlare.

E il tuo baffo a spazzolino

e il tuo occhio Ariano, di vivo azzurro.

Uomo carro, uomo armato, panzer Tu —

 

Non Dio, ma una svastica tanto nera

che nessun cielo potrebbe sopportare

e ohi ohi — ogni donna al suo Fascista,

lo stivale sulla faccia, il bruto cuore

bruto di un bruto come te.

 

Sei ritto alla lavagna, papino,

nella foto che ho di te, una fessura

al posto del piede sul tuo mento

e nondimeno un diavolo perciò, non

di meno l’uomo nero che

 

spezzò il mio cuoricino rosso in due.

Avevo dieci anni quando ti seppellirono.

A venti tentai la morte, e tornare

indietro, indietro, indietro da te —

credevo che anche le ossa lo avrebbero fatto.

 

Ma mi tirarono fuori dal sacco

e mi rifecero i pezzi con la colla.

E fu allora che compresi il da fare.

Realizzai un modellino di te,

un uomo in nero con l’aria di un Meinkampf

 

e l’amore per i binari e i cacciaviti.

E dissi lo voglio, lo voglio.

Ecco papino, ho quasi finito.

Il telefono nero è fuori dalla radice,

le voci striscianti non ci sono più.

 

Se ho ucciso un uomo, ne ho uccisi due —

il vampiro che diceva di essere te,

che si dissetò col mio sangue per un anno,

sette anni, se proprio vuoi saperlo.

Papino, puoi riposare di nuovo in pace ora.

 

C’è un palo traverso il tuo cuore grasso e nero

e i paesani non ti amarono mai.

Ballano e scuotono i tacchi su di te.

Da sempre sapevano che fossi tu.

Papino, papino bastardo — ecco ho finito.