3 febbraio 1909 – nasceva uno dei più grandi spiriti di tutti i tempi: Simone Weil

3 febbraio 1909 – nasceva uno dei più grandi spiriti di tutti i tempi: Simone Weil
(Nell’etica della debolezza nasceranno le umane città.)

a cura di Lisa Orlando

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Scriverò a te, Simone, n o n di te, non oserò farlo; ogni mia parola penetrerebbe in una sfera talmente evanescente (o, peggio ancora, dottrinaria) al punto da non conferire pienezza o verità alcuna al tuo pensiero. Resto, ogni volta, congelata dinanzi alla tua genialità – che appartiene solo ai santi –, all’immenso, ineffabile “deposito d’oro” che ci hai lasciato, e che giustifica parte di questa mia ultima esistenza. Sin da subito, ho intuito il tuo segreto – più d’un segreto. La tua terribile libertà; la tua terribile purezza; il tuo “sentire” all’infinito; la tua impresa disperante a cui non dare mai fondo: il sottrarre quanto più dolore al mondo. L’incompiutezza della tua epoca, Simone, e della mia – ne converrai? – è stata nell’orrore dell’espressionismo, per il quale ognuno ha saputo scrivere cose terrorizzanti nei giorni del terrore, tuttavia senza aver saputo procedere, in una stimolazione di luce, oltre esso. In eredità ci hanno lasciato i relitti, le tracce di fango abbandonate sulla riva dall’onda sciabordante della morte. Solo tu (insieme a pochi altri) hai proceduto oltre quella condizione di “funesta quaedam pestis animi”; imparando ad accettare l’inaccettabile: il vuoto; la rinuncia – del sé; la morte… per una Verità (di luce) più grande del vero.

Quando apparvero i tuoi pensieri, che Gustave Thibon ebbe cura di riunire in un libro “La Pesanteur et la Gràce”, un soffio di purezza, miracoloso, fu emanato su un’umanità che all’indomani della guerra non osava più guardarsi allo specchio. In un tempo di demonìa, in cui non solo le belve del dominio, ma gran parte degli uomini avevano mostratto il volto più feroce, tu – tu! – in un presagio di fede, infondevi la speranza e la fierezza di essere persone create da Dio, a sua immagine. Senza patetismi oratorii, senza accenti devozionali scrivesti uno dei tuoi pensieri più belli: “C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla culla fino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro”. “Fammi del bene, non farmi del male”, “fammi del bene, non farmi del male”; Simone, perché non siamo in grado di dirlo nel modo più nitido e straziante a ogni essere umano che incontriamo sulla terra? Perché l’uomo ha rinnegato l’umiltà e, con estremo vezzo, lasciato troneggiare la superbia dell’io – irriducibile.

Tutti, tutti i tuoi libri dovrebbero essere deposti in un angolo solitario d’ogni libreria, e lontanissimi dai milioni, miliardi di testi pubblicati che perpetrano indefessamente il sistema delle menzogne poste in atto dal potere; la sua astuzia, la sua ferocia, il suo intimo terrore. E ancora, lontanissimi da tutti quei libri inutili e artefatti destinati solo a chiosare e ornare eleganti e intelligenti (?) solitudini.

Scopristi la radice del male e la scrivesti, sempre, come se ogni tua parola avesse attutudine a rivelarla; come se tu (!) avessi vocazione a “guarire” da tormentosi disordini, a sollevare ogni uomo dal fardello opprimente di eventi incomprensibili. Quando, sarà estirpata la radice del male, la formula di malificio: la f o r z a? Quando, questo uomo – l’animale! – smetterà di dire “io, io, io”, bramando la potenza all’infinito; mutando brutalmente gli esseri in cose, imbastendo le catastrofi?

Una notte, nel buio di una cappella, pensandoti, in un flusso senza argini, provai uno di quei tuoi devastanti mal di testa che per tutta la vita ti straziarono (ponendoti nella sventura); compassione, diresti tu, talmente naturale nella soppressione del sentimento dell’io, ma, sopra naturale fu la rinuncia di me perché io potessi provare l’intensità del tuo stesso male. In realtà, volevo incontrarti con tutta l’anima. Ma tu non venisti a me, come il Cristo venne a te, nel buio di quella cappella. Tuttavia, è questa la preziosa macchia d’oro che mi hai donato sul cuore: il valore supremo di ogni riduzione di me, che – pur per la durata d’un solo attimo – è, nella segreta essenza, amore (onnivolgente) verso l’altro; verso Dio; verso la Verità.

Simone, tu pulsavi con l’intero universo; tu eri (!) nell’universo; vicina alle cose universali; come avresti potuto vivere in un mondo quotidiano, in luoghi in cui poter essere sicuri, in ore deputate ai gesti noti, con persone con cui essere fedeli, con cui vivere o morire? Un altro mondo ti è appartenuto (più vicino a Dio, più vicino alla follia) dove ogni porta poteva spalancarsi su prospettive abisssali vicine alla morte, e dunque, alla verità.

Per una più acuta coscienza della miseria umana, toccatati in sorte, per una straordinaria, speciale empatia con la sofferenza del mondo, originata dall’ulteriore privata tua sventura? – eroicamente, nobilmente – ti identificasti in Cristo – fosti il Cristo?; quanti ce ne furono sulla terra, prima di te, dopo di te, di cui non conoscemmo i nomi? Ciò che (ora) so è che Tu, come Cristo, per amore salisti sulla Croce, costretta a quel sacrificio eccedente, per compensare il gesto di chi, egoisticamente e senza sosta, afferma (espandendo fino alla morte) il proprio sè. Per questo scrivesti: “Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non può più trattenere il grido: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, se si rimane in quel punto senza cessare di amare, si finisce con il toccare qualcosa che non è più la sventura, che non è la gioia, ma è l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, cioè l’amore stesso di Dio”. Chi nella tua opera non ha saputo udire quel suono forte, drammatico, tragico della disperante domanda sulla Croce, ma quale testimonianza di Dio, nulla ha compreso di te.

[Com’è lieve la salvezza, in questa tua lirica.]

“Debole sorriso luccicante di lacrime,
Esordio di un mezzo in mezzo ai giorni
Vieni, afferraci, libera dalle ansie,
Ascendi, illumina, accendi, corri!
La tua fiamma slitta di ora in ora;
La tua ala d’un quieto lampo sfiora
Uno per uno i pallidi passi.
L’aria è in fiore sulle tue tracce.
Che una volta per i lenti spazi
Si assista al tuo sgorgare!”

 

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