AL NETTO DEI PIUTTOSTO CHE, MA ANCHE NO

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Ogni tanto scoppia improvvisa una nuova moda linguistica, spunta dal quasi nulla un modo di dire che in un batter d’occhio adottano tutti quanti gli esseri dotati di parola attorno a me, a raffica, dilaga e diventa una sorta di mantra ripetuto fino all’esasperazione da penne tastiere e lingue duttili, subito pronte a recepirlo, a stare al passo con i farfugli dell’ultima ora, in prima linea nella battaglia del dire che mette in campo stilemi e frasi idiomatiche, metafore confezionate a basso costo e all’occorrenza anche variazioni grammaticali pindariche, senza esclusione di colpi. È in questi casi che ho come l’impressione di essere ripiombata alle medie, ancora tredicenne, sfigatissima, l’esclusa della situazione, quella che si vestiva sempre sbagliata, quella che era lontana anni luce da tutti i giri giusti, quella che con sincero candore cadeva dal pero e guardandosi intorno si sentiva appena uscita da un romanzo del secolo precedente. Indietrissimo, insomma, niente affatto al passo coi tempi. Non è per un atteggiamento di superiorità, un rigurgito di elitarismo sdegnato verso la massa informe dei parlanti che si esprime all’unisono masticando le stesse formule, che in bocca a tanta gente finiscono per perdere consistenza, diventando ovvietà. La mia è sul serio e a tutti gli effetti un’incapacità a recepire in fretta i cambiamenti e, dunque, ad adattarmi alle mode linguistiche, dietro a cui da sempre arranco alla bell’è meglio per celare le mie lacune.
 

Ho una vaga memoria dei primi anni ’90, tempi bui, qualcuno dirà, con pochissimi cellulari in circolazione, niente social, insomma, il medioevo della comunicazione, e al centro di questa era barbarica l’ “attimino” ripetuto da così tanti parlanti e così tante volte che c’è mancato poco durasse un’eternità. Ma il bello (o il brutto?) delle mode è che spesso sono passeggere, come arrivano così svaniscono, è tutto un attimo, appunto, cantava qualcuno, e l’attimino ormai finito nel dimenticatoio non si sente più, a meno che non capiti d’incontrare qualche affezionato al Muretto dei ricordi, dove pascolavano felici i Ragazzi di una nota serie televisiva coeva (sì lo so, sembra pazzesco, ma le serie televisive esistevano pure decenni fa, erano solo meno spettacolari di quelle prodotte a getto continuo ai giorni nostri).

Dicevo che le mode di solito sono passeggere piuttosto che durature, ma è proprio il buon vecchio caso del “piuttosto che” a smentire la regola generale: era l’inizio del secolo in corso e di botto, insieme ai fuochi d’artificio che festeggiavano l’avvento del millennio numero due, ho ascoltato prima lentamente poi sempre più in fretta diffondersi incontenibile il “piuttosto che”, taroccato, cioè non quello vero che vuol dire una cosa ben precisa (“invece di”), ma un suo lontano parente, che con un colpo basso gli ha fregato la faccia, se l’è incollata addosso e anche se significa tutt’altro (un semplice “oppure”), niente, si ostina a mantenere le fattezze dell’autentico, che da allora non ha più avuto il piacere di essere se stesso. E questa brutta storia, ahimè, non accenna a vedere una degna conclusione. Ancora e ancora sulle labbra della gente i “piuttosto che” fioccano a sproposito, esempio questo di una moda refrattaria ai mutamenti, che deve avere messo radici così profonde da diventare imperitura. Ma anche no, ecco, speriamo. Il “ma anche no” è roba più recente, si diceva qualche tempo fa ovunque per negare l’innegabile in modo garbato e possibilista, non un “no” fatto e finito, ma un “no” con una zona d’ombra minuscola che lascia uno spiraglio aperto al fantasma del “sì”: vuoi un calcio sulle gengive? ma anche no; vieni al cinema con me stasera? ma anche no. Ancora si sente in giro, non si è estinto del tutto, anzi, ma rispetto ai suoi esordi ha subito un tracollo e la sua popolarità si è un po’ appannata, lasciando spazio a nuovi tormentoni, l’ultimo dei quali, attualissimo, mi ha costretta a una ricerca in rete, perché giuro, non riuscivo a capirne il senso, al netto di tutti i miei sforzi. E sì, “al netto di” è l’espressione che va di moda adesso, e ditemi che mi sbaglio, ditemi che magari sono paranoica ed è solo una mia impressione vederlo moltiplicarsi sulle pagine dei quotidiani, negli incipit degli status di FB e di altre diavolerie social, al centro dei discorsi da aperitivo e di quelli dei politici (non che vi sia una netta differenza tra i due contesti d’uso…), ditemi che è una mia allucinazione, io vi crederò senza più soffermarmi sulla questione, che mi provoca un certo disagio, perché ogni volta che mi cade l’occhio (o l’orecchio) su qualche “al netto di” mi vengono in mente le fatiche scolastiche dei nove anni, quando i problemi di matematica erano calcoli lordi e netti e c’era da impazzire.

 
Non so se condividete con me certe idiosincrasie e certi limiti verbali, in ogni caso, se non avete niente di meglio da fare, potete aggiungere a questo breve e incompleto elenco i vostri modi di dire preferiti o odiati, scriviamo insieme un compendio che fra mille anni venga mandato a memoria da qualche diligente studioso intento a imparare la nostra lingua (in futuro morta e sepolta), una radiografia, una reliquia dei tic linguistici che ci hanno abitati in questa epoca di parole al vento, sotto vuoto, da tastiera, iperfragili vacue ripetitive e ostinate. La nostra carta d’identità alfabetica. 

Margherita M.