Recensioni
Alfonso Brezmes, Quando non ci sono, Traduzione di Mirta Amanda Barbonetti, Collezione di poesia, Einaudi 2021
Alfonso Brezmes
Quando non ci sono
Traduzione di Mirta Amanda Barbonetti
Collezione di poesia, Einaudi 2021
a cura di Alfonso Lentini
Come è noto, la poesia è basata essenzialmente sulla forza espressiva della lingua, di conseguenza in poesia la “forma” di ogni parola diventa sostanza.
Nel momento in cui un traduttore prova a traghettare un verso qualsiasi da una lingua a un’altra è costretto a cambiare “la forma” delle parole e inevitabilmente ne modifica anche la sostanza, per questo può essere definito un traditore. Tuttavia, fin dai tempi più lontani, sia pur con alto livello di rischio, la poesia viaggia da una lingua all’altra, travalicando l’area del luogo (e del tempo) in cui è stata prodotta.
Mirta Amanda Barbonetti, traduttrice alla sua prima esperienza in poesia, ha affrontato il rischio del “tradimento” ed ha traghettato nella lingua italiana le poesie dello spagnolo Alfonso Brezmes consentendo al nostro pubblico di apprezzare un autore certo meritevole di attenzione.
“Quando non ci sono“, questo è il titolo del volume uscito nel novembre 2021 per Einaudi nella famosa collana “Bianca”, è una raccolta antologica (comprendente anche quattro inediti, successivamente inseriti nel recentissimo “Es tiempo”, uscito in Spagna nel febbraio 2022) che offre una panoramica su un autore considerato oggi una delle nuove voci poetiche più interessanti della poesia spagnola contemporanea.
In “Quando non ci sono” le composizioni sono spesso strutturate in forma di dialogo.
C’è un io che si rivolge a un tu (forse un’evanescente presenza femminile) e questo potrebbe far pensare a un colloquio intimo di ascendenza sentimentalistica. Invece così non è: l’elemento colloquiale, il rapporto io-tu, è solo un contenitore. Basta leggere anche una sola poesia per scoprire che la componente lirica è quasi assente; fra i due poli io-tu si apre a fisarmonica un complesso di diramazioni che spazia dall’onirico al surreale, dal filosofico all’ironico, dal metaletterario al minimalismo più essenziale, sino a sfiorare l’area del nonsense o del paradosso logico. Non solo, ma succede anche che il rapporto io-tu si espanda sino a inglobare una dimensione collettiva, il noi.
Il rapporto diventa io-altro, io-moltitudine (Gli altri: “passano da questa parte dello specchio / fino a tornare ad essere noi stessi.”), se non addirittura io-natura: “C’è qualcosa di epico nei fiori. / (…) Come se la vita sperimentasse su di loro, / prima di farlo sui nostri corpi“.
“Dietro la poetica di Brezmes – scrive Barbonetti – ci sono lo studio e l’influenza di Baudelaire, Borges, Kafka, T. S. Eliot, ma anche il fascino esercitato sull’autore dalla musica, classica jazz e pop, che si rispecchia nella parola cercata in base al suo potenziale di musicalità, oltre che alla sua capacità definitoria.“
Ed è importante aggiungere che l’autore, avvicinatosi relativamente tardi alla poesia, è un artista complesso, come dimostrano le sue interessanti opere visive, una sorta di collage digitali che rappresentano paesaggi surreali dove spazi vastissimi accolgono figure incongrue sottratte ai comuni rapporti di proporzione e collegate fra loro da sottili analogie.
Un procedimento che per certi versi ritroviamo anche nelle più belle composizioni poetiche di “Quando non ci sono” dove non a caso compare il nome di Hopper, l’artista degli spazi enigmatici in cui le persone rappresentate sono perse nel loro mondo e anche se apparentemente vicine sembrano mentalmente lontane: “…O quei quadri di Hopper / dove sempre accade qualcosa / che sa soltanto lui”. Ed ecco un esempio di focalizzazione straniante, che in questo caso sembra quasi riflettere una malinconia gozzaniana: “Penso agli ombrelli perduti / alla seconda vita delle cose rotte / o a quei guanti spaiati / che conservano carezze per nessuno, / tanto simili a isole solitarie / quando i turisti se ne sono andati e la luce / disegna nell’aria una ragnatela / che sembra sempre sul punto di rompersi“. Ed ecco un esempio di collage onirico-visivo: “La notte è un soldato ferito / che fugge per le trincee del sogno / e sale sugli ultimi treni / e sale sui tetti delle auto / dove ragazze semi addormentate twittano con fantasmi insonni / e sale sui taxi sonnambuli / per portare con sé le ombre. (…) La notte è una maschera antigas/ che va a posarsi sul volto / del soldato morto“.
Ambiguità del reale, riflessione sull’identità, senso della mancanza, erotismo, desiderio, sono alcuni dei temi ricorrenti in una poesia che pur con radici colte sa farsi popolare e facilmente leggibile. Valgano per tutti questi versi di presa immediata ma di grande profondità concettuale: “Dove ho perduto qualcosa / cammino con più cautela. / Non so se troverò quello che cerco, / ma quel luogo è come un tempio: / in esso esiste ciò che è possibile. // Dove ho perduto qualcosa / quel che ho perduto mi chiama / e qualcosa di me chiama quel che ho perduto. // La cautela non serve a incontrarci; / la cautela serve a non calpestare / il luogo sacro dove dimora / l’oscuro animale della speranza.“
Un’altra importante caratteristica di queste poesie è infine l’elemento metapoetico, cioè l’interrogarsi del poeta sul linguaggio e in generale sul problema della comunicazione, ben evidenziato fin dai versi riportati nella copertina, versi eleganti e metricamente raffinati nell’originale come nella traduzione, dove Brezmes dichiara di voler estendere l’area della lingua intercettando appunto una “lingua millenaria / che solo gli alberi conoscono”. Ma la lingua può essere messa anche sotto accusa: “Tante e tante lingue / e sono andato a scegliere la tua,/ l’unica che riesce/ a non farmi capire nulla / e che, per di più, mi piace“.
Perché i poeti ben ne conoscono i limiti ma anche la potenza attrattiva.
1 Mirta Amanda Barbonetti, Memoria e Desiderio, La Recherche.it, 2018
ALFONSO LENTINI
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