Amare – solo – Cenerentola è male; come pure desiderare la propria salvezza. (Lisa Orlando)

“Desiderare la propria salvezza è male, non perché è egoista, ma perché vuol dire indirizzare l’anima verso una semplice possibilità specifica e contingente, invece della plenitudine dell’essere, invece del bene che, incondizionatamente, è”. 


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Tuttavia l’io, irriducibile, ché il fondo della nostra sofferenza, ci porta a malsani movimenti, a quella che pare essere un’iterazione ossessiva (e che accresce inesorabilmente la nostra declinazione), a un restringimento elettivo: “Non potevo impedirmi di immaginarlo vivo, di immaginare la sua casa come un luogo dove mi sarebbe stata possibile la sua cara conversazione. Allora la coscienza della sua morte creava un deserto orribile. Freddo metallico. Che cosa poteva importarmi che vi fossero altre persone da amare? L’amore che dirigevo verso di lui, accompagnato da scambi che potevano aver luogo esclusivamente con lui, era senza oggetto. Ora non lo immagino più come vivo e la sua morte non mi è più intollerabile. Il suo ricordo mi è dolce. Ma ci sono altri, che allora non conoscevo e la cui morte mi farebbe ora il medesimo effetto. D… non è morto, ma l’amicizia che gli portavo è morta, accompagnata da un eguale dolore. Non ne rimane che un’ombra”.

È che si ama negativamente, con un io che, come un blocco incastrato, si restringe e s’inchioda; altrimenti il nostro amore non sarebbe congiunto solo ad alcuni esseri, ma avrebbe la qualità della concavità, aperto a tutto quel che merita d’essere amato.

Cenerentola: nella versione cinese si chiama Yen-Shen; in tale versione viene evidenziata la qualità che assolutamente la identifica differenziandola da tutte le altre donne, ovvero: Yen-Shen aveva “i piedi più piccoli di tutto il regno”. Tale qualità viene omessa nelle versioni occidentali; per tal ragione a noi è restato sempre oscuro il motivo per il quale il principe si aspettava che solo una ragazza fosse in grado di indossare la scarpina. È quando percepiamo (nell’altro) un elemento distintivo unico l’inizio dell’atto d’amore. Tuttavia, se non fossimo inchiodati all’io (a un solo io) e se non avessimo natura finita, ameremmo tutto quel che riconosceremmo di preziosamente unico nell’universo.

V’è da aggiungere che amiamo malamente pur perché (sfrondiamo finzioni e accediamo alla realtà) nell’amore altro non desideriamo che la salvezza, orientando la nostra anima verso una specifica possibilità che metterà in salvo il nostro io. (L’amore umano è quasi sempre un atto di potenza, giammai un’abdicazione). Charles, ad esempio, protagonista del romanzo proustiano “Un amore di Swann”, in fondo, ama (utilizza?) Odette (la donna che più somigliava a Sefora, nell’afffresco di Botticelli) semplicemente per sottrarsi alla morte. Inutile dire che quell’amore si rivelerà una vera e propria discesa agli Inferi.

A ogni modo, come dice Simone Weil, “la verità è che bisognerebbe amare come il sole illumina”. Terrei a precisare però che il sole pur illuminando tutto, illumina in modo unico ogni cosa. Bisognerebbe ricondurre il proprio amore a sé per spanderlo su tutto. Ma solo Dio (se esistesse) potrebbe amare in tal modo: amare tutto, unicamente ogni cosa, e amare se stesso. Nondimeno, dopo aver condotto l’ amore a noi, spanderlo – irrepetibilmente, gratuitamente – su quanto più possibile.

 

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