Angela Suppo, Il filo torto 2

Angela Suppo, Il filo torto, puntoacapo, 2022, Collezione Letteraria

a cura di Elisa Audino 


continua […]

Le rime sono funzionali alla sottile e elegante ironia che pervade tutta la raccolta, quasi arrivassero a raddrizzare la mira. Oggi sono quasi del tutto scomparse, spesso sono una forzatura, ma con qualche riuscita eccezione. Sono ancora molto usate ad esempio nella poesia dialettale, dove finiscono per accompagnare una sagacia del tutto popolare, in modo non tanto dissimile da quello che fai tu.

VERGINE CUCCIA

Molte cose ho da dire sul mio tempo
e la fatica di trovare pace,
se il mendicante all’angolo
che tace, e chiama mamma
la donna che si china,
sente l’invito a tornare dalla mamma
al cane, trasportato in carrozzina
fino alla casa e alla rosea copertina,
al cibo vitaminico e ormonale.

Qualcosa stona e inquieta la sorpresa
che il mendicante taccia,
provvisto di pazienza,
e non impugni un’arma,
a ricordare quanto è pesante
il peso della fame.

Mi viene, però, difficile pensare che la rima possa funzionare in contesti diversi. Tu che ne pensi?

Mi fa piacere che le rime ti sembrino funzionali, quando ci sono. Non le scelgo, quello è il flusso di pensiero che le porta, non credo subentrino mai per riflessione. La riflessione magari sposta le parole lungo i versi, a volte le sostituisce. Le rime vengono per prime e, quasi sempre, mi sembrano già giuste e necessarie.

Il rapporto con le rime è sempre difficile: c’è solo Caproni che può essere lapidario e vero. La Valduga ne fa un uso spropositato, ma è padrona della metrica in modo meraviglioso. Ho visto però che molti si sono cimentati in metri codificati e, perciò, fornitissimi di rime. Io le trovo belle quando “schizzano” da sé dalla matita, senza essere cercate e segnano un colpo, o rovesciano il senso. Anche le tronche lo fanno. Da giovane ho scritto sonetti, un esercizio che impegna molto, non facile, ma che può rendere benissimo sentimenti o fatti (amorosi sostanzialmente e, per me, esercizio terapeutico per superare il dolore). Credo comunque che sforzarsi di comporre su metri tradizionali sia un bell’esercizio di musicalità, che poi ritorna a chi scrive nei versi liberi: leggersi a voce alta, per cogliere le zoppie, aiuta a trovare una voce musicale dentro di sé. Come leggere i grandi poeti a voce alta: si interiorizza il metro, che oggi ci piace libero. Ma io leggo poesie che sono prose, e solo raramente la prosa è scorrevole e musicale. Purtroppo, o per fortuna, per la nostra sensibilità un testo tradizionale con le rime canoniche è ormai fuori luogo, esercizio di bravura. Le rime però reggono molto bene la poesia satirica o di civile rimostranza, perché affondano nel nostro inconscio infantile e facilitano la memorizzazione, credo.

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Pur facendo riferimenti continui al passato, non ti esimi dall’affrontare il presente e tematiche importanti come quella della ‘condivisione mancata della cura’.

QUESTIONI DI GENERE

Così diverse le vite delle donne,
(o di alcune?).
La scalata al tetto di cristallo
– rompersi la testa prima
di riuscire – si ferma
perché altrove c’è dell’altro:
lo sguardo che ti prende,
la mano che si tende.

Se in fila un altro genere
concorre, si rincorre e sbrana,
trionfante raggiunge
i suoi traguardi,
feroce si conferma
agli occhi di chi guarda,
avviene perché spesso
non si cura della strada.
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E non è semplicissimo affrontare argomenti di questo tipo senza cadere nella ridondanza. La cura, poi, tu l’hai vissuta credo da svariati aspetti: madre, figlia, dirigente scolastica.

Il passato è il presente che è stato, e, se parlo del presente, mio o altrui, è perchè dietro c’è l’esperienza del passato che rende leggibile il presente. Sulla cura c’è una bellissima poesia di Tess Gallagher, la compagna e moglie di Carver, il cui inizio recita “poso i versi, e stendo le camicie …” all’incirca. Nei confronti della cura spesso si esprime rabbia, rancore, una condanna che tocca alle donne. Penso che ci si debba ragionare in altro modo: le donne della mia poesia sono “attente”, si accorgono del mondo intorno e forse scelgono perché vogliono scegliere. Se ci si chiede chi si è voluti essere si può ammettere con se stessi che si è voluto e non dovuto scegliere in un certo modo, e che questo è quanto ci ha fatto sentire diversi e contenti di guardarci allo specchio. Il rifiuto della cura può essere una scelta molto meno ricca: mi sono chiesta spesso se le scelte a favore dell’ascoltare gli altri, guadagnare meno, pensare che la mia scala di valori fosse fatta così, fossero dovute al mio essere donna o al mio essere come persona. Per pigrizia e comodità mi dico che la persona era così, non la donna, e sarebbe stata così anche da maschio. Quanto alla condizione della donna, avendo vissuto in tempi diversi e sapendo che le lotte vere non sono quelle dell’asterisco, vale la
poesia sull’io, che finisce per o.

POLITICAMENTE SCORRETTO

Il mio io finisce per “o”,
e quel noioso super-ego che ho,
che non riesce a scansare, a dire no,
sarà anche retrò, ma finisce per “o”.

Così di homo sum coltivata,
non m’importa se vi sia
un genere me, meglio di altro da me.

Ben ferma allora l’anima, che è sola,
si fa animo: osserva con sgomento
divisioni e tormento.

Certo estraneo niente:
il confine tra bene e male è sottile e uguale.