Lei viene da un’isola che aveva voluto costruire il paradiso (III)

intervista a Zoé Valdés
a cura di Elisa Audino

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Ancora oggi Cuba è mitizzata e stereotipata e il mito è tanto più facile perché non se ne conosce veramente la storia, si conosce solo la Rivoluzione. O meglio, solo la Rivolta, per dirla alla Camus. Pochi sanno ad esempio che prima della rivoluzione le interazioni tra autori cubani e il resto del mondo – pensiamo a Guillen, ai suoi viaggi in Europa, alla sua corrispondenza con Langston Hughes – erano molto vivaci. Poi, la chiusura. In che misura ne risente tuttora oggi la letteratura, esuli e non?

Valdés: La rivoluzione castrista non ha nulla a che vedere con il concetto di rivolta di Albert Camus; fortunatamente, questo autore è stato in grado di affrontare tutto quel che erano gli orrori del comunismo, ed è possibile che la sua morte abbia avuto a che fare con la sua coraggiosa presa di posizione, che deve ancora essere indagata. Chi a questo punto conosce o riconosce solo l’infame rivoluzione di quella mafia rivoluzionaria che ha distrutto un Paese prospero e una grandezza di cui queste persone inutili si sono appropriate per abbellire le loro meschine esistenze, merita solo l’epiteto di ignorante. Mi dispiace. L’epoca di Nicolás Guillén era diversa, così come quell’Europa e quel Guillén, quando scrisse le sue migliori poesie; un grande poeta, una grande opera, tra l’altro, distrutta dalla adesione senza limiti al PCC. Non posso parlare a nome della letteratura cubana, sono solo Zoé Valdés, o Zoé, posso parlare solo per me, e la mia posizione mi condiziona molto positivamente per la mia creazione letteraria, ma per le mie tasche mi condiziona enormemente, mi creda.

Mi riferivo, con Camus, alla rivolta della prima ora, allo slancio, precedente alla stessa vittoria (il sogno). Nella prefazione lei scrive che la poesia è l’avventura intima della sua vita. È curioso come per alcuni autori la poesia abbia una voce apparentemente opposta alla quotidianità, così capita che chi è molto estroverso tenda magari a comprimersi e diventare rarefatto e chi, invece, è controllato abbia slanci misurati. Com’è stata per lei questa lunga avventura con la poesia? C’è una continuità o la poesia è un luogo riservato?

 

Valdés: È molto semplice, in tutto ciò che vedo e vivo, vedo poesia e vivo nella poesia. E non mi importa troppo dei volti con cui la poesia mi si presenta, se violenta o pacifica, se razionale o irrazionale…. È l’avventura della mia vita, ed è così che la vivo. Cintio Vitier mi scrisse una volta una dedica in cui, da buon poeta, giocava con il titolo del suo libro “Lo cubano en la poesía” (Cuba nella poesia), scrivendomi: “Para Zoé Valdés, que es la poesía en lo cubano” (Per Zoé Valdés, che è la poesia di Cuba). Ho cercato di non tradire mai quella bellissima dedica di quel libro, uno dei miei libri da comodino, scritto “prima del diluvio”, prima dell’errore fatale del 1959.

QUEL CHE MI RESTA

Mia figlia/un marito

I miei fratelli

Nel New Jersey

Come alberi

Come una nevicata

E questi libri

Pellicole che torno a vedere

Poesie maneggiate

Centomila volte

E la musica come litania

I miei compositori preferiti

Per fortuna ho due fratelli

Perché questo esilio

È la morte

Mia madre e mio padre morirono

Lei a Parigi

Lui nel New Jersey

Con due anni d’intervallo

Adesso ho anche due tombe

In due luoghi remoti di quel mondo

E un’amica che vende sogni in una galleria

Della calle Ocho a Miami

Un altro amico che dipinge con la punta delle dita

E il folletto che freme di piacere in Indian Creek Street.

E un cugino all’Avana

Che sogna con la paura.