Approfondimenti
“Avevo allucinazioni, ma a chi davano fastidio? Vi domando: a chi davano fastidio?” (Lisa Orlando)
“Avevo allucinazioni, ma a chi davano fastidio? Vi domando: a chi davano fastidio?”
[Anton Čechov, Giacomo Leopardi]
“Ero folle, smargiasso, tuttavia ero allegro, ero energico, addirittura felice, e interessante, originale. Adesso sono diventato più ragionevole, più assennato, ma sono come tutti gli altri: una mediocrità! La vita mi è noiosa… Oh, come avete agito crudelmente con me! Avevo allucinazioni, ma a chi davano fastidio? Vi domando: a chi davano fastidio?”
È un passo tratto da Il monaco nero, celebre racconto di Čechov. Alla fine, per ammansirlo, per rendere innocue le sue rivelazioni atte al bene, viene somministrato (al protagonista di tale racconto: Andréj Vasìl’ič Kovrin): bromuro. Stessa sorte verrà destinata al giovane studente Vasil’ev nella novella čechoviana L’accesso: “perché”, gridò Vasiel’ev, “ho scritto un’opera che fra tre anni sarà dimenticata mi si porta alle stelle, ma perché delle donne perdute non so parlare con altrettanta fredda calma come di queste sedie, mi si compiange, mi si chiama pazzo”.
Anche qui la follia rivelatoria verrà spenta con la sedazione. “Che somministrare gocce atte a sopire l’attenzione è cosa di ogni giorno, di ogni ora”, scrisse Cristina Campo – abile conoscitrice dell’agire umano –, cominciando innanzitutto “dai critici di Čechov, dai loro ormai meccanici tentativi di narcosi”. Tale pratica è traboccata a tal punto che non si è più in grado di misurare la quantità di bromuro penetrata nelle nostre case.
Fino alla morte, nelle faville dei roghi sepolcrali venivano atrocemente bruciati gli eretici ai tempi di Giordano Bruno: il sistema sociale, allora, aveva mura talmente deboli (che neppure steccare fossi a difesa li avrebbe rinforzati) da non potersi lasciare minimamente attaccare, e da nessun avversatore. La Santa inquisizione infliggeva non bromuro ma la pena dei roghi!
Una simile sorte fu serbata pure a Leopardi, lo scrivo con un luminoso fascio di luce che rischiari una visione eretica che avversa la critica autorevole – immonda macchina d’ipocrisia –, movendo dalla certezza che ve ne sia bisogno. Il pessimismo leopardiano che ormai da secoli pare aver assunto una visione assiomatica chiusa, altro non è che aderenza, perfetta, alla realtà; coscienza, perfetta, dell’ordine del mondo e della condizione dell’esistenza umana, del suo grande mistero. (Mediatore e veggente) Leopardi ebbe in dono quella lente d’ingrandimento per guardare il reale stato di souffrance e di malheur del vivere umano. Nondimeno, il suo “cuore gentile” espresse l’urgenza di un mondo altro – dagli “interminati spazi”, dai “sovraumani silenzi”, dalla “profondissima quiete”, aperto alla purezza dei sentimenti, al dolce naufragio nel mare dell’essere, al gesto sacrificale del sé che “reimpara sempre amore”.
Tuttavia, laddove (profeticamente) si rivelano le vie altre che conducono ai luoghi della non-potenza (della luce?), subito si crea nell’uomo quel bisogno irresistibile di oscurare ignobilmente, e con ogni mezzo. Non a caso Leopardi apre “La ginestra “ – suo testamento poetico – con una citazione del vangelo di Giovanni: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. O, come ebbe a dire Simone Weil: la necessità degli uomini “di coprirsi gli occhi col velo della carne ogni volta che gli si mostri un po’ di bene puro”, tanto sono terrorizzati a rinunciare a quel rapporto di vassallaggio con la forza che induce instancabilmente al potenziamento dell’io, giammai alla sua rinuncia, giammai all’accettazione della morte.
Per questo a colui che svelerà l’altra via sempre saranno somministrati bromuro e roghi. Spegnendo di crepacuore o perseguitando per il mondo i migliori di noi.
[Nell’istante di svestizione dalle leggi di necessità, e dalla sovranità immaginaria sul mondo, nasce nel deserto un fiore: la ginestra. Che si preservi, pur in tremule mani!]
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