Biografia di un biografo (peQuod) di Alessandro Trasciatti

a cura di Sebastiano Mondadori 

Sembra il sonno guardato dai cani evocato da Sinisgalli, lo spettacolo dell’assenza a cui assistiamo nella goffaggine esistenziale del Trasciatti poeta e Trasciatti personaggio poetico che si moltiplica nei suoi eteronomi incapaci di riscattarlo: un’assenza colma di solitudini, acuita dal senso scombiccherato dell’attesa – spudorata e avvilita – di un colpo di scena, in cui paradossalmente l’inettitudine lo rende padrone dell’altrove, perché tutto – la verità e il suo rovescio, la vittoria come il fallimento – è compreso nell’unica strada ancora percorribile del presagio: ciò che vanifica all’origine qualsiasi speranza. Così diventa irrilevante partire o non partire: «Partire mi dà ansia, / restare m’intristisce, / tornare è una sconfitta: / mi ci vorrebbe un bacio». E comunque il ritorno sigilla il fallimento del ricordo.

Su questo spartito impotente, giocato con intelligenza sorniona su una lucidità alla mercé di comiche passioni, dove «lo sconcerto e l’allegria» si toccano soltanto nello sguardo perdente dell’ironia, Alessandro Trasciatti inscena dieci anni di un percorso poetico che va dal 1990 al 2000 (tra i venticinque e i trentacinque anni) per interromperlo brutalmente come il ritiro prematuro di un ciclista disamorato delle salite. Una scelta dettata dall’incontro con la poesia di Roberto Amato – inafferrabile sodale viareggino, interlocutore polemico e prevaricatore, compagno di visioni metafisiche, quasi un castrante fratello maggiore che diffida dei modi del maestro e lo riduce a una sudditanza semiadorante. Ma non è chiaro fino a che punto Trasciatti ci creda o quanto finga bene di convincersene nella Casa del poeta, la folgorante mito-biografia di Amato stesso in chiusura del volume che meriterebbe un libro autonomo, una perla di dissimulazione autobiografica dove scalpitano i soprassalti lunari del più autentico umor trasciattiano: un’esplosione di leggerezza tra inutili contrattempi, catastrofi e illuminazioni kafkiane.

Nel rovesciamento del memoir in una fittizia autobiografia di sponda, narcisisticamente subita e alimentata con sprezzo del grottesco, Trasciatti porta a compimento la costruzione del suo personaggio che ha continuato a imperversare con felice inettitudine nelle successive opere narrative, rivendicando il risultato con orgoglio e distratto senso di sfida: «Fedele alla mia immagine distorta».

Ma il titolo della raccolta, Biografia di un biografo, risente di troppa consapevolezza, quasi mossa da una vergogna retrospettiva a rinnegare l’immediatezza dei versi che da pubblicazioni sparse e estemporanee, plaquette e poesie d’occasione confluiscono in una coerenza instancabile dello sguardo, un tono asciutto che scivola mesto nel tragicomico e una saldezza stilistica che si è nutrita del Giudici più dimesso per imprimere alla quotidianità il senso paradossale dell’inevitabile. Quanti pensieri corrono mentre «Il palombo (…) lessa sul fuoco».

«Specialista di attese» – esiste un’esperienza più vicina alla solitudine? –, il Trasciatti poeta va delineando il suo limbo esistenziale intorno a tre nuclei ossessivi, dicotomie o dilemmi incompiuti: comunque irrisolvibili nell’attesa che li rimanda costantemente e a un certo punto li rimette alla condanna dell’ironia: «La vita è poca cosa, / sta tutto in una mano»; «Se passa un cane – e certo lo farà – / io sarò quello, lui sarà me, / ci scambieremo i ruoli, / camminerò fiutando tra le foglie». Certamente un cane amico di quelli di Sinisgalli mentre guarda gli uomini che dormono, e forse ne ruba i sogni, e finalmente spadroneggia nelle sue passeggiate metafisiche.

Il viaggio e la stanzialità, rinnegate entrambe dall’impossibilità di un cambiamento; la veglia e il sonno, confusi in una torpida allerta; l’amore libertino e l’amore coniugale, vagheggiati e mai consumati del tutto, costituiscono i poli apparentemente chiari, e invece così ambigui alla prova della vita, di un presente immobile dove il ricordo è sminuito a aneddoto e la «Nostalgia, no, non è più tempo…». Come fare affidamento sulle speranze, quando conta solo l’attesa della scelta, perché qualsiasi scelta sarà destinata a cadere nell’irrilevanza? Non c’è più qualcuno che «venga / a ricordarci il compito / gravoso e verticale / dell’esser felici».

Ecco un esempio della perentorietà, l’improvvisa (in)felicità icastica con cui il Trasciatti ci inchioda al suo solipsismo senza vie d’uscita, una sentenza per recidere gli ultimi lacerti di sentimenti. Eppure c’è tanto amore, o almeno ci sono tanti tentativi d’amore, con cui cerca di colmare i paradossi dell’attesa prima che «lo sconcerto e l’allegria» lascino campo libero alla desolazione della solitudine. Oppure abbiamo travisato la tenerezza che affiora dai finali di ogni storia d’amore, quando accusa una donna («La tua sciocca costanza a non amare») o la rimpiange amaramente («Quanti funghi d’amore ti donai / nei giorni magri della mia passione…»). Come se nel momento del distacco ritrovassero vigore le passioni sopite in una stagione poetica a venire, in cui provare a superare il grottesco – congeniale alla sua vena narrativa quanto avverso agli slanci lirici – per appropriarsi di una speranza diversa, più matura, dove riversare quell’acutezza sobillata dal disagio e raddolcirla in una melodia rigettata a priori, che tanto lo turbava in Amato, e addentrarsi una volta per tutte, senza l’alibi dell’ironia, nei meandri del suo limbo esistenziale dove la vita è tutt’uno con le contraddizioni e il grottesco non funge più da espediente ma al massimo diventa un esito invalicabile. Non so se sia un elogio o un auspicio, certo è che Alessandro Trasciatti – poeta, narratore e su malgrado interprete dell’inadeguatezza umana – si porta dentro il segreto di un errore. E quale errore più grosso dell’esistenza è degno di essere messo a nudo?

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