Approfondimenti
Botte rospi biglie
E giù botte. Come sassi dritti in testa. Gli facevano un gran male. Ma lui forte non smetteva di ringhiare. Che lo avrebbe ammazzato a quel bestione. Questo gli urlava a squarciagola. Non appena fatto grande. Con in tasca un bel cortell, un petardo, una pistola. E il balordo lo picchiava anmù più forte. Per la rabbia di saperlo più carogna del suo pugno gliele dava e non smetteva.
Tutto a un tratto lo sbarbato branca un chiodo lì per terra. E con gioia sacrosanta glielo pianta nella carne. Una volta. Un’altra ancora. Nella carne dello stinco. Che si fende, cede, sfrolla. Lacerata dalla ruggine puntuta. L’uomo grida ‘me ‘n strascee. Come un orco di cascina slancia le mani ad afferrare il collo di quel birba. Che riesce a svicolare. E poi corre, corre, corre via lontano. Corre, cade, si ribalta, tra la palta di nimal capitombola d’affanno. Fino a quando, al sicuro dalla morsa del bestione, lancia un urlo. E una risata. Che ti spazza la pianura.
“Sono il Bestiaccia io. Son mi ‘l Bestiascia! Te mi dai! Ma sta’ attento che t’ammazzo prima o poi! T’hee capii paisan bastard?”
Poi si erge. Ritto, pesto. Con il fiato che si strozza purulento nella gola. Sono i nervi a fior di pelle. E’ il mastino che ha nel sangue a pompargli la sua sfida. Che ha la forma di un sorriso. Gramo, buio, sconsolato. Guarda il cielo e quanto intorno. Fissa cupo ormai lontano a leccarsi la ferita chi lo ha appena massacrato di legnate. Ora è in alto. Quattro salti è andato su. Ha scalato quel che pare a lui bambino una montagna. Ora è lì. In cima. Ad un passo dalle nubi che son gonfie e anmù più nere. Sopra la terra, il fango, la rogna, il sangue caldo. Così in alto da sentirsi lui il padrone; e saltando all’impazzata sbraitare contro quello che l’ha così conciato.
“Sì! Senteel tucc! Som mi, som mì, som mì ‘l Bestiascia! Nessuno ammazza il Bestiaccia! Fioeu d’ona loeuggia son io che t’ammazzo! T’al giuri che sì!
E la rabbia se ne invola dallo sfintere del cuore. Resta lui. Solo. Le ossa che cominciano a far male. Sotto la pelle rimbomba la grazia dei pugni presi. Sanguina il naso. Il freddo frusta il culo. Guarda intorno e la terra l’è anmù terra. Terra. Sangue. Patimento. Ma il suo nome, quello sì, l’ha certo detto. Perfino urlato. Chiaro, forte. In alto a tutti: sul gran mucchio di letame contadino poco fuori la cassina. Sì. Ci sarebbe certo ritornato da chi quel giorno l’aveva massacrato. Per far sua una vendetta. Lo giurava a denti stretti.
Con gli zoccoli stretti in mano ritornava per intanto a casa sua. A pée biutt, per sentirsi dura e fredda questa terra di pianura, starci su che camminava e madonne di bestemmie, grama carne e molti spregi. Perché questo a lui toccava. Vivere! Vivere sempre! Sempre e comunque! Pure in culo alla malora, ai malanni, alle tempeste, alla scarogna. Perché questo lui voleva. Perché lui era il Bestiaccia.
All’oratorio del paese c’era andato una volta che era un caso. Giusto il gusto di rubare di soppiatto il crocefisso. Poi se n’era andato via, in riva al fossone. Strappato il cristo dal legno, l’aveva buttato lì. Era andato giù di colpo, il nazareno. C’avesse almeno provato a camminar sull’acqua. E invece no. Sprofondato come un pirla, come un piombo, sbarlugeva fond al fòss, lì, nel fango, via rugato dalle carpe che cercavano pastura. Gli era dunque rimasta in mano solo la croce. Fosse stata più massiccia, un crocione da meaculpa, ci si sarebbe di certo inchiodato lui. Ma lì intorno c’era un rospo. On sciatt. Che sgorgava rutti a iosa. Lo ha brancato in un baleno. Dalla tasca orsù due chiodi. Svelto più di una sentenza l’ha messo lì, con le zampe inchiodate sulla croce. Il rospo crocefisso non ne ha capito la ragione. Anche lui, il Bestiaccia, men che mai. Fino a che, la pietà per quella bestia che tanto gli somigliava, che parlava la medesima sua lingua, che viveva come lui gli stessi luoghi, non gli ha torto di pietà il cuore matto. Allora, i chiodi, li ha strappati in tutta fretta, il rospo l’ha buttato giù nel fosso. Con lui anche la croce. Poi ha preso e se n’è andato…
Era quell’ora che le madri antiche chiamavano alla finestra i figli attorno al piatto. L’eva sèna. Il padre gli aveva promesso qualcosa di buono quella sera. La legora con la puccia: una golosità per i figli della zolla. Ma anmù più della bestiola eran quelle dieci biglie di vetro colorato a farlo matto di contentezza. Eran giorni, settimane, che aspettava di averle finalmente strette in mano, così farle rotolare tra le cacche di gallina, mostrarle con somma meraviglia a tutti gli altri paisan del su’ contado. Nell’attesa, altro non poteva che fermarsi sulla straa che dal paese menava invers Milan. Per vedere se quel cristo del Gioé, l’eterno vagabondo dei dintorni, ritornava. Lui; e le biglie colorate che aveva un giorno promesso di portargli. Per settimane, ogni santa sera, vento e pioggia poco importa, aveva spettaa lì, alla chiusa del fossone.
Anche quella sera l’aveva fatto. Ma fidarsi del Gioé non si poteva! Freddo e botte appena prese dal bestione giù in cascina, quel suo fiuto che già gode della lepre promessagli dal padre, dopo un po’ lo convincono che l’è mej de lassà stà. Che anche quella sera, il Gioé, col cristo che verrà.
Sbassa la testa. La schiena si volta. Sta per andare. Quand’ecco il più dolce tra i richiami.
“Deh, sacrament d’on Bestiascia, do’che ta vee inscì de scur? Son qui! Son me! A son rivaa cristòn impestaa!
Il Gioé ride sempre di gran gusto. Più ardita la bestemmia, con più forza gli squilla un gran sorriso distruttore. Una gioia balzana strepita d’un tratto per le vene del Bestiaccia! Quel ragazzo tracagnotto, gramo, sporco, vunc balord, si abbranca alle gambe di chi, da lontano, dal gran Milan, è tornato in quell’umidore di cascine e stalle e porcilaie con le tasche ben rigonfie di biglie siluranti. Ed ecco che i suoi nervi sputan fuori l’affetto e la riconoscenza per un così grande dono: dieci biglie de vèder! Che certo lo faranno re indiscusso tra i piccoli malnatt del su’ paes. Ma il Gioé non è certo uomo granché uso a tenerezze. O forse no. Qualcosa nei suoi occhi, come di foglie sui pioppi quand’incalza l’autunno, gli trema talvolta. Ma non quella sera. Che lo vuole, dopo un giorno di cammino, affamato, stracch, quindi svelto in cerca de pan, luganega, stracchin. Non ha tempo di star lì! Il suo stinco saetta quindi al pari di una frusta cavallante. Ha fretta di andare. Di trovare un piatto pronto, il ronfo di un gatto, l’amico da riderci insieme. E una stalla, una cantina, al meglio un spassacà. Per dormire come devono i cristiani scristianati vagabondi.
Verso il fiume, il nostro caro, Tesin, tra i boschi ormai smorzi dal fiaa de l’inverna, svelto il sole andava in tana. Il freddo imponeva ritirata. Sulla stessa sponda del fossone, lo sbarbato e il vagabondo, nuovamente si sarebbero incontrati. Quello era al loeugh. Tra contadini la promessa si mantiene. E’ la regola che vale. Il nostro solo sì.
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