Il Bestiaccia VI

Quando il padre vede il Bestiaccia venirgli incontro, gha domanda se c’ha poi fame. La rabbia è certo peggio della fame. Lui ben lo sa. Avesse tra le mani on bel tòcch de pan, glielo pianterebbe dritto in bocca, così da limargli un po’ i denti, morbidirgli il fiato che gli è brusco da morire. Ma sul momento non ha pane che sia adatto a quel rospo di un figlio e bislacco più che mai. Che gli pianta gli occhi addosso. Col suo far di estrema sfida. Poi gli sputa a bruciapelo…

“Pà. Damm a trà. Vado via per qualche tempo. Voo via cont al Gioé. Voo stà Milan. Ma sta’ certo che poi torno indietro. E qualcosa di buono a casa di sicuro te lo porto.”

La mano del padre affonda allora in saccoccia. Ne sortiscon due soldi appena.
“Milano! – Mormora senza sorpresa – Tre giorni ci son stato. Trii dì hin staj assée. Il quarto ero già indietro. Digli a quel tomo del Gioé di tenerti d’occhio per bene. Ché se no vegni toeul mì quel lì. Digli di trattarti come si deve. E di stare bene attento. A lui e a te. Per intanto prendi qua. Non son mica una gran roba. Ma ti possono servire.”

Poi volge lo sguardo intorno. Scorge i muri smunti della cascina, al giass di fòss, nel cielo una danza di corvi affamati, si ferma sulle schiene curve dei paisan, dei famej, di quanti intorno vanno a resegar legna e nettar merda. Rivolge allora un pensiero a quel tomo del Gioé. E ai morti. Che certamente, su quel figlio malconsciaa, dovranno ben vegliare.

Quelli della Ligera

Da quando eran partiti, seppur il Bestiaccia continuasse a inzigarlo il Gioé non aveva spuntato una parola. Dove avrebbero trovato un fuoco? Cosa avrebbero mangiato? Dove un tecc, un lecc?
“Perché no anche una donna?” Fa d’un tratto il Batusu.
Che aveva infine accettato la presenza del rognoso come quelli della razza sua un temporale o un colpo di fortuna. Con serafica indifferenza. Per il Gioé, da trent’anni sulle strade polverose della Bassa, avere al fianco un ragazzotto svelto e piantagrane, un fiolòtt svicc, nulla gli veniva in bene o in male.

“Semm tucc in man d’una combinaziòn. Tutti nelle mani del destino.” Da buon camminante amava spesso ricordare.

E certo con più forza lo doveva quel giorno. Sentirsi il gomito del Bestiaccia trapanargli il fianco e l’osso, ché questo faceva il bislacco per ottener risposta, rientrava nell’ambaradan delle esperienze di cui prodiga è la straa. Sì. Avrebbe portato il birbante con sé. A Milan. Là. Nella grande città. L’avrebbe certo fatto.

Spesso, in quegli anni, s’era ritrovato al fianco ragazzotti originali. Figli di cascine e letamai. E non per sua diretta volontà. Glieli affidavano volentieri gli amici paisan, quelli che in lui ammiravano il giramondo che a cavarsela l’ semper bòn; che quando tornava serbava cose rare: un para di stivali lustri, una veste ricamata, lana, pever, del caffè, ancor meglio qualche lira. I paisan, su quei loro figli, non avevan progetti di romantica avventura. Miravan disfarsi di una bocca da sfamare quando d’inverno nei campi c’era nulla da fare. Il Gioé conosceva Milano. Trafficava dappertutto. Nelle bettole. Coi fornai. Tra i banchi del mercaa. Una sua buona parola spesso portava a un buon lavoro. Che iniziava d’autunno e finiva all’inizio dell’estate. I giovani paisan imparavano allora un mestiere cittadino. Dormivano in bottega. Mangiavano spesso. Ci davan dentro duro e di mani e di cervello. Per poi tornare tra i su gent: con buono il vestito e ben stirato, in tasca il biglietto del cine e del tramvai, cento lire risparmiate.

In quei giorni di sosta in paese, spesso il Gioé aveva ciciaraa col padre del Bestiaccia. Insieme bevuto e ricordato. Il buon uomo, il vecchio compagno di mattane ora allo sgobbo quotidiano, quel suo figlio strampalato se lo sarebbe volentieri tenuto sott’occhio. Era certo consapevole del fatto che a Milan, cunsciaa ‘me l’eva, avrebbe al massimo rimediato un calcio in culo. Ma l’inverno cominciava. E il Bestiaccia mangiava come un lupo. E per questo glielo aveva sbolognato. Ma il Gioé gli aveva dato picche.

“No. – Sfiatava il Batusu – Milan non va bene per lui. A tuo figlio van bene i fossi. Che lùu ‘l sa puccia den’. Non è un tipo da Milano. Milan ‘l va ben no.”

Fosse solo per zittirlo se ne sarebbe liberato con un bel spintone in acqua. Ma nel naviglio, caderci dentro di novembre, voleva dir lassagh la ghirba. Il Gioé s’era ritrovato tra i piedi quel tomo del Bestiaccia un istante prima che saltasse sul barcone che dal navilj de Castellett menava dritto filato alla Darsena ticines, il porto di Milano. Per gente come lui, trovarvi un comodo passaggio era condizione pressoché abituale. Non era un semplice battello, quello. Ma un legno a fondo piatto che dalla terra de Biagrass lento ruminava tra le sponde. L’eva on barcé. Stracolmo di sabbia e ghiaia. De litta e de gera. Di coppi. Ceppi. Pietre. Tutta merce che a Milano andava a ruba. Il destino quotidiano di quel barcè vantava ben seicento e passa anni, da allora tutti i giorni sul naviglio avanti e indree. Su quei barconi avevan nei secoli trovato ricetto i marmi di Condoglia, i tronchi delle roveri lacustri, la sabbia e il sale. Ora non più. I padroni dei barcè non eran più al servizio di duchi e cardinali, marchesi e capitani di ventura. Ma degli umili lavoranti nelle case popolari che allora sa cominceva a tra in pee al Lorenteggio, a Baggio, al Giambellino. Ciò che si trasportava era per loro. Restava, tutta, la nobiltà del vecc mestée. Non dissimile per gesti e lingua ai tempi dei Visconti. Da sempre quella del naviglio era la strada di minor fatica e ancor meno spesa per giungere a Milano. Quel che si pagava era un’irrisoria mancia, la bona man, offerta al padrone del barcone. Dai borghi, dalle cascine, dagli orti sparsi intorno, poveretti, ambulanti, malandrini, artisti, contadini, questuanti, mollavan volentieri le chiappe sul barcè. Alcuni erano devotissimi a San Vittore, la cui presenza non era però quotidiana, anzi rara. Chi invece spesso e volentieri lasciava l’impronta del culo sul cumulo di ghiaia caregaa sul barcone erano i miseri ambulanti de pacciam e baravaj, cianfrusaglie le più varie e spiritose, tutte le mattine all’alba dai cortili di Biagrass, dalle stalle, dai tabernacoli rurali, dalle messe officiate prima che spuntasse luce, da soli, spesso con cani rognosi malamente costretti alla corda, o in ristrette accolite di interessi più o meno illegali: spaccio di pollame, contrabbando di caffè e sigarette. Era la vasta, fantasiosa e irrisolta, umanità della Bassa lombarda. La più schietta genìa di spiriti allegri, saltimbanchi, poeti, matti e originali, che mai s’ebbe ad incontrare.
Toccava allora tenerselo lì appresso, carpognent e mal quarciaa, sto cristo d’un Bestiaccia. Non foss’altro per l’amicizia che legava il vagabondo al padre. Che mai avrebbe lasciato quel figlio matto via da solo per il mondo. Col Gioé, col Batusu d’occhio attento quanto bastava per cavarsela alla grande, la musica cambiava. Camminasse per un po’ per strade sconosciute, il Bestiaccia, non era poi riprovevole questione, questo pensava al pà. Così facendo, forse, un cicin di quella rabbia in corpo l’avrebbe qua e là dispersa.

Girovaghi si nasceva, in quei tempi, da Milan a Tesinn, una terra sconfinata per dar gambe alla bella gioventù. Gha penseva l’uccello che gonfiava nella patta, la stufa, il bicchiere e un piatto pieno a importi primo o dopo la tua ferma. Dopo anni spesi a girondlare in lungo e in largo, d’un tratto si raccattava una donna, sa troveva un mestee, s’abitava una casa. Per tanta di quella strada fatta, di colpo un giorno si era stracchi. E le scarpe rinunciavano alla sfida peregrina. Di solito, ciò avveniva poco più passaa i quarant’anni. Giusto allora il padre del Bestiaccia l’era stato benedetto dalla virtù delle bestie stanziali. Con gran dispiacere del sodale Gioé. Che lo avrebbe al contrario voluto ancora appresso, con luu in gir. A fa baldoria. ‘me i can saus. Dopotutto l’eva giust inscì. Questo pensava il Batusu Gioé. L’esser stracco, il volersi notti calde, l’eva d’obbligo prima o poi. Anche lui, da qualche tempo, meditava d’appendere al chiodo le scarpe disossate. Ma l’occasione al momento gli mancava. Trafficare per la piana era in fondo al su mestee. Mai un giorno di galera. Mai una rissa finita in denuncia. Mai un urlo dietro il culo per imporgli di fermarsi nella fuga. Mai un problema. Mai on vespee. Il Gioé era calmo, dignitoso, riflessivo. L’eva bon de tasé. Ben calibrava le parole e l’emozioni. Amava contemplare quanto intorno. Con acume. Con freddezza. Se qualcosa andava fatto, furto o atto generoso, svelto e zitto lo si sbrigava. Per riprendere sereno la sua straa.

E sereno era quel dì. Nel limpido novembre di pianura. Sebben facesse freddo su nel cielo nubi in giostra si inseguivano gioiose, berte e passeri nel tripudio primitivo. Dai concimi terragni sciamava un’aria tersa, pungente, vivissima e pura. Lustra ‘me ‘n veder. Che non trovando ostacoli al suo spandersi errabondo svelava agli orizzonti estremi l’Alpi già imbiancate. Lento al barcòn del nevilj rimestava l’acque trasparenti, sui cui fondali l’alghe si scotevan molli e lustre. Mille pesciolini vi guizzavano arrembanti. Questa l’eva l’immensa nostra pianura, dove terra e vita parevan impastate per essere all’uomo. Tant’è ch’anche il Bestiaccia s’era arreso ad ammirare quel prodigio d’acque e zolle e nitore di vento tra i ram in garbuj sui bord del naviglio. Una terra che ben conosceva. Sul carro, in cattabrega con altri ruspanti fiolòtt de cassina, nei suoi primi anni ne aveva ben girate di fiere paesane, mercaa, convegni di vacche, adunanze di porci in grassa e buscin da farci carne moresina. D’uga e pan giald s’era più volte ristorato il ventre. E mai che gli fossero mancati polenta, risòtt, luganega e stracchin. Qua e là in giro per i paesi, Barbapedanna e Turututela, i cantastorie della Bassa, recitavano leggende certo degne d’essere accolte alla corte di Re Alboino il longo e bardo. Così poi da venir sera. E quieti andà a slòffen, a dormire strafelici, sognando rospi, orti, granaglie, eterne fughe: appena oltre il fosso.

Ma la piana era in questi ultimi anni cambiata. Le strade ormai dritte e di certo ben segnate. Disoccupati i boschi dai lupi e dagli assalti alle merci del buon borghese. Sempre più forti s’eran fatte talune voci. Voci elettriche. NovecentoFuturiste. RadioMarelli blablabla. Avanguardie dei picconi distruttori. Che certo stavan dando buona prova di sé, la, nel gran Milan; dove la schiatta dei lombardi inurbati s’era nel tempo più che altrove prodigata nel far di peggio; a sé chiamando altre schiere; Gente in ressa e priva: sradicati, desculati, malvissuti, latitanti, reduci, bravi, derelitti, pennivendoli, militanti, affaristi, usurai, spacciatori di fuffa, questurini, lenoni, legulei, architetti, professori, ganassa e barnafus: d’ogni risma razza censo e condizione. Milan l’eva puu istess.