Approfondimenti
Il Bestiaccia cap.III
Duu biciclette quella notte si fermano in riva alla cascina. Quella. Non una delle più grandi. Un cassinell. Una sorta di bicocca dalle mura smilze e rose; che una volpe salta al pelo e in un baleno. Al Bestiaccia serve il piede del Gioé per la spinta necessaria alla monta sulla mura. Il Batusu, al contrario, fa leva sul barbera bondanzioso carburato quella sera. Ci si esalta in talune circostanze. Un rutto maschio, un balzo, alé!, si è dritti in corte, lì in su l’era; per usmar la pista giusta, che la mena alle galline, ai polli, al ricetto dei conigli che son sempre bene in carne. E’ scuro pesto, è senza luna, non c’è un cristo che ti aiuta e dà una mano. Mai e poi mai tirarsi indree: è l’istinto della bestia che vuol vivere e rognare che ci fa la differenza.
Il Bestiaccia era giusto entrato in quella cascina, nel pomeriggio appena prima. Aveva fame. Più che fame, voglia di vita. Quella cavagna ricolma di mele, sul momento, la poteva ben soddisfare. Bei pomi rossi dolci che c’han succo a volontà, come dolce ti può essere la strada che la mostra finalmente l’occasione, il giusto istante. Lo si colga senza indugio e cedimenti. Con ferocia benedetta. Semm inscì. Vacca l’ostia! Ci fossero state nei calzoni saccocce a sufficienza! Allora l’ingombro delle mele lo si sarebbe risolto in un fervido baleno. Ma al Bestiaccia la vita gli era già buca; pure le tasche, ovvio. Meglio allora consumarli lì di getto quei bei pomi dolci un miele; e con stile prettamente paesano, cioè sgagnando alla rabbiosa. Mordon forte i denti buoni del bislacco. La polpa te la schiantan tutta intera, mentre gli occhi da faina vagabondano febbrili per la corte e non sanno che non possono far nulla contro il cielo che si schianta sulle vite; all’improvviso, sottoforma di un bel pugno, che precipita alle spalle via schiantato dritto e duro sul crapone.
“Sì. M’ha fatto male bestia quel bastardo d’un famej.” Si lamenta d’un tratto il Bestiaccia.
“Lo chiami così perché ti ha unto di legnate” ribatte secco il Gioè Batusu. “Ma tegna a ment anche te sei proprio uguale a lui. E magari peggio. Anca ti ta see ‘n paisan.”
Il Bestiaccia storge il muso. Luu l’è no della stessa razza del bestione che l’ha pestaa. Lui la vita la ciapa a la larga e anche di più. Vagabonda con certo impegno. Per cascine e altre strade sconosciute. Lui non cura le galline, non c’ha le scarpe grosse, non netta merda a iosa. Sì. Anche lui è di stirpe contadina. Un paisan per l’appunto. Ma, a differenza di quelli appresso, delle centinaia di schiene curve dì per dì, ogni sera può ben dire d’aver saltato un fosso, accoppato cinque ratti, rubato tre galline. Di aver fatto come vuole e gli salta nel zuccone, insomma.
Ecco. Gha semm! Un lieve gorgoglio di bestioline gli assicura che ciò che si cerca non è poi così lontano. E’ là, appena dietro il cascinale. Basterà traversà il cortile, svoltar cantone. Più che l’orecchio lo convince il suo senso primitivo, il suo naso da canappia, quel suo fiuto, al su usmà; che gli è certo eccezionale. Vero istinto da predone di pollai. Sopraffino più che mai.
“Dove senti gran puzza di merda” sussurra al Gioé “o c’è un guaio o una gallina. E stanòtt a gh’é i gajnn! Insema ai gajnn anca i conilj. Hin lì tucc per vess brancaa. Sti poori pigottòn.”
Come nebbia scivolosa si seguita sull’erba. Anche il cane da guardia, vera foggia di bastardo allevato a bastonate, si convince a star con loro. Il Bestiaccia è come lui. E per questo non abbaia.
Ecco. Gha semm sul seri! Ancor prima della puzza di gallina, ecco il tremore dei conigli! Carne scelta, sommamente saporita. E pellicce da rivendere alle autarchiche sartine del paese. Meglio certo della carne stoppa di gallina, tutto al più ricercata per far brodo di minestra poverella. La sacca di tela che il Gioé porta a tracolla è certo fonda quanto basta. Luu l’è svelt. Sei conigli vi si ficcano giù in fretta. Ne restano pressappoco una trentina, giocoforza risparmiati dalle sgrinfie risolute del Bestiaccia. Che invece di sghimbiarsela di fretta, lì s’incanta a scrutare nelle gabbie col magone stretto in gola.
“Dimm un puu, Gioé” sibila intristito “ma ste poore bestie che vita de l’ostia che fanno? Hin saràa su den’ ‘me fudessen in presòn.”
“’Ste voeur fagh? E’ il destino delle bestie” s’affretta il Batusu. “Il nostro è quello di prender botte. Di darle, se ci vien bene. Te sei ancora un piscinin. E ste robe ti fanno un certo senso. Vieni grande, cresci, e poi capisci cos’è la vita. Ma ‘dess s’ciulemes. Stemm minga chì a pirulà.”
Il Gioé rampa il braccio del tracagnotto. E’ deciso, convinto in un baleno di trascinarselo con sé. Ma quando le dita, brancata la carne, ti stringono l’ossa, si rendono conto che queste, a dispetto dell’età, stanno in pari a un fusto d’obice massiccio. Ne hanno la possanza. Il robusto nutrimento. Tant’è che a nulla può un semplice strattone. Né quello appena dopo. E tale fermezza si comprova nello sguardo. In di oeucc. Gli occhi che certo non patiscono incertezze. E’ acuto e attento, lo sguardo del pestifero balordo. Il Gioé vi legge quell’assoluta condizione dello spirito che precede le mattane squinternate. Quanto avviene lì d’appresso lo comprova.
Di colpo, quasi preda a un delirio compulsivo, il Bestiaccia si scaglia contro la gabbia dei conigli. In men che non si dica la tenaglia delle mani la fa a pezzi. Strappata la rete via che schianta l’assi in legno. La sua furia scaraventa poi le bestie, una ad una via brancate per le orecchie, oltre il muro di cinta, nel campo di là del fosso. E nel mentre che le lancia per dar loro libertà ride, piange, maledice, mugolando una sorta di sofferta cantilena campagnola.
Fino a che il sommo fracasso, le bestemmie, il diavolio, spazzan via dalle orecchie di qualcuno l’ottusa bambagia della notte. Allora s’ode un grido. Un altro appresso. Più forte, un terzo ancora. Son rabbiosi. Vengon da dentro la cascina. Di fresco ricordo, si riconosce il timbro, il tanfo, la natura astiosa. E’ lui, il picchiatore, l’è ‘l famej. Scaraventando la gola al cielo, il Bestiaccia allora ride; lo fa cupo, ossessivo. Cento civette gli stanno in pari.
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