Il Bestiaccia V

Lungo la strade che, da i bastion de Porta Ticinesa, le turrite muraglie di Milano, si addentravano nella piana coltivata nei millanta dai paisan lombardi, per quegli estesi coltivi d’erbe, marcite, muschi, terre grasse immaltate dal concime delle vacche, dai nimal in attesa del dicembre scannatore, dalle cacce al cervo, alla légura, al cinghial, traverso borghi, cascine, rogge, ceppi, nei secoli trascorsi una storia disgraziata s’era fatta il suo sentiero.
Le brughiere che declinano al fiume, al nòst Tesin, il Ticino, terra estrema di Insubria e Lombardia, che lì scavano confine con Valsesia e Lomellina, ed oltre null’altro che nuvolaglie di guerre e marmaglie d’invasori franzi e crucchi, quelle stesse brughiere, ne sono a tuttoggi i muti testimoni.
Un’altra storia. Certo. Che mai ha trovato ricetto. Né redenzione. Solo il marchio dell’infamia. Della perenne dannazione. Una storia reietta. Quindi umile. Sorta tra uomini usi al letame ed alla brasca dei fuochi accesi d’inverno lungo i fossi. All’ombrìa di nòst busch. Accanto al camino. Attorno a un tavolaccio. Nel convivio di una zuppa di lardo condivisa, nel mentre si fantastica sulle nebbie, su quel che ha detto il corvo, su quanta santità s’innervi tra le cosce di una femmina generosa, di un maschio che sta in pari. Una putrida storia e sublime generata dall’afrore delle tane, dal furiare dei bracconieri che ti battono la piana, dal fosco mollore che suscita il bivacco nell’osterie, dalla tempesta che sferza l’acque che sbarlùgieno in pianura. E ti impone la sosta, il riparo, invitando all’adunanza gli ubriachi, alla triste cantilena di ciuccattee.
E’ allora che il sangue nostro s’inaria all’improvviso, prende vento a sufficienza; così da partorir castelli immaginari, glorie bizzarre, vittorie e trionfi: del tutto a casaccio, a la carlona: questo è lo spirito primo dei lombardi che vivono le terre basse del Ticino! Buffo, sprezzante, crudo, tajaa col segurin. Siam soldati di ventura in fin dei conti. Più che lanzichenecchi, a dire il vero, dei bertoldi cacasenno. Di pajasc. Di pastrugnòn. Che c’han tanta ispirazione. Quella stessa che vien data dalla terra e dalle feci; da ogni cosa che è carnale e spiritosa. Questo insano bugio dell’anima, al pari delle rogge che in primavera strapazzano per campi, ha spesso preso vie d’ingegno le traverse e più bislacche. Complicandosi in rivoli strambi. E invero prodigiosi.
Nei loro chiaroscuri d’osteria, gli artisti lombardi dei tempi contadini, son tutti passati di qua. Han lumaa e capii. Come quel Daniele Crespi, il dipintore assassino, che al fianco del suo Cristo nell’ultima cena, traccia i ghigni contadini. I suoi apostoli son tutta gente di malaffare, tacchen lit! S’ja dann!, l’un con l’altro s’arruffano irosi. C’han gli occhi bislacchi. Nel mentre che mangian fan rissa ed ecco tra loro spuntare un coltello che scanna! E sempre in queste terre di noi è stato il Giacomo Ceruti detto il Pitocchett. Nel suo peregrinare in cerca del vero, l’ordito raro del pennello gli si è intessuto di questi volti. Barboni, pitòcch, donne forti, gioie crude, vino, zuppa, morra e scarogna. Queste terre, sì! Le cui rogge sterminate han dissetato briganti e fuorilegge della migliore et accanita risma.
Per le strade che dai fossi di Garegnan risalgono la pianura verso il novarese, dai sentee del Ticinese per le zolle dei mondrogni alessandrini, costrette perciò a transitar per i boschi che danno sul nostro fiume, un tempo estesissimi e fondi di pertugi e nascondigli, per quelle strade, un’ardita genìa di malfattori, viament de demòni e de malnatt, vera stirpe di ventura e tagliaborse, nei secoli addietro ha scelto l’agguato, la rapina, l’assalto e la tagliola. L’ha fatto da gente del fiume, ossia combinandone di cotte e di crude. Con malsana e cupa allegria.
D’altronde, a ben pensarci, il GrandGuignol francese, con quel suo cipiglio furfantesco e delittuoso, francese non lo è affatto. Pochi sanno che ha origini non molto lontano da qui. In bassa Lombardia. Prima di emigrare tra le folle parigine, Guignol era solito far mattane per le fiere della piana. Era una maschera popolana, Guignol. Nulla più di questo. Una maschera cattiva, un brigante cispadano, ‘na crapa de legn dell’antica commedia lombarda: lui, al pari di quel bel tomo del Beltramm de Gaggian, altro figuro da baraccone, mezzo ladro e tutto furbo, portato alla ribalta da quel Carlo Maria Maggi, nobil padre de l’istoria milanesa.
Ma Guignol non si è certo contentato dei suoi lazzi strapaesani. Non è rimasto ad ingozzarsi di maiale e verze come spesso facciam da noi. Al seguito di una sgangherata compagnia di saltimbanchi, agli inizi del seicento, d’in fondo al Po presto varca il Monviso, sbarca a Lion, di lì poi a Paris. Ed è il successo! E’ la gloria teatrale!
Così non è stato per Vion il brigante; qui lo stesso son rimasti il Giacomo Legorin e quel Battista Scorlin suo sodale di rapine. Una storia mentecatta la loro; una storia che ai potenti fa vergogna, iniziata già in malora e d’impresto finita sulla forca.
Per anni il bel Vion si accampa di tutto armato poco fuori le mura meneghine. Con lui son cento e più fedeli, accasati lungo i fossi e le brughiere tra la porta Vigentina e il ticinese. In quante terre traversate dal naviglio milanese, per i boschi che da Corsich ti menano a Gaggian, di lì a Biagrass, poi all’acque de Tesin, in quei brughi penetrati da un sortilegio di sentieri su cui arrancano i carri dei mercanti che vegneno da Zena e Lucchesìa, Vion e i suoi ladroni alzano lo stendardo squinternato dei ribelli alla carlona. Vino e sale in quei giorni faticano non poco. Le porte di Milano son per loro proibite. Ché il Vion gli è presto addosso; e lascia carri vuoti, schiene rotte, mercanti disperati.
E’ per questo che i signori milanesi, al bel Vion, gliel’han fatta ben pagare. Con l’agguato. Con la strage. Col massacro. In un’alba del 1339, in un campo fuori appena la porta Vigentina, eran mille i miliziani con foga sortiti de pressa dalle mura. Per che fare? Per brancare il bel Vion e disfarsi della banda lui d’appresso…
Qua e là per la campagna è rimasta qualche testa fracassata, per anni tra l’erbe un ricamo d’ossa rotte, crap de mòrt, òss s’ceppaa.
Ferito, catturato, il bel Vion l’è menaa a Milan in piazza Vetra. In un giorno di vento, viene appeso, bruciato, sparso ovunque e in nessun luogo. Le sue ceneri tra i boschi….
Poi Milan s’è fatto grande. Milanin Milanon! L’ultimo campo di battaglia dei ribelli di Vion, quello appena fuori le mura vigentine, è stato sepolto, i boschi intorno sradicati, interrati i fontanili, case, asfalto, tram e gas. Nulla resta che Milano non divori! Non gli uomini. Non la terra.
Questo certo intuiva il Giacomo Legorin, il più crudele tra i briganti lombardi. Che seguendo scrupoloso il destino di un reietto si avventava con ferocia contro chiunque venisse a tiro, con un occhio di riguardo nei confronti dei ricchi prevost, dei mercanti danarosi. Tanto certo della grama sorte che prima o poi gli toccherà, il Legorin, da alzar di molto le sue pretese d’assassino. Da solitario del cortello, presto si mette presto in proprio. E’ a capo di una banda. Lo fa con spirito decisamente imprenditoriale. La libera intrapresa, così cara alla peggior schiatta lombarda, lo affascina.
Alla metà del seicento, nel Bosco della Merlata, la selva fosca che da Garegnan s’inoltrava a occidente verso l’acque dell’alto Tesin, per le terre tutte intorno, per dieci e passa anni, si è pagato davvero un grave dazio.
Con carri e cavalli, chi vi scorre, fa presto testamento; né può guarnirsi di armati più di tanto. La banda del Giacomo Legorin, del Battista Scorlin suo fratello di disgrazia è sempre all’erta.
Musi duri. Occhi pesti. Mani pronte. Archibugi, pistolesi, lame crude e bergamasche, cappellacci con le piume de la sgòlgia e del fasan. Tra spari, micce, affondi e sfregi, saltando in groppa ai carri, tagliando gole a iosa, per anni bloccano le strade mercantili che da quella parte di Lombardia riforniscono di merci Milano. Il Legorin è un cuore d’arrembaggio. E’ rabbioso, stolto, sofferto: di ferocia inaudita e cuore tormentato, generoso. Ci dicono che odiasse nobili, preti, i prestiti di usura; che piangesse dinanzi a un’insolita tristezza. Ed è questa tenerezza un dì a dervirgli la fossa sutta i pee. Lui e agli altri tutti della banda.
Quel dì, il crudele, si commuove, gha vegn ‘l magòn. E’ la vista di un bambino sciancato dalla polio lì sul carro di suo padre, capitato giusto in mezzo al Bosco della Merlata, a smorzargli il ferro ardente tra le mani. Il Legorin blocca i suoi, prende in braccio lo storpio, invita il padre. Offre loro la cena, ‘na pacciada de quej bòn, sì!, in una stamberga poco in là del borgo de Baregg. Lì, ciucch ‘me ‘n ratt, s’addormenta come un piombo. Alla mattina, tradito dal padre dello storpio, d’intorno all’osteria un battajòn d’archibugieri meneghini gli intima la resa!
Per cento e cento anni i cuntastòri milanesi ci han dato di chitarre e mandolini, a tutti narrando la triste fine del Giacomo Legorin, del fratello di pugnale il Battista Scorlin. Trascinati per le vie di Milano, in strusa per i straa, omaggiati dello scalco della ruota, schiene rotte e gambe a pezzi, la condanna la si sconta ad occhi aperti. In piazza Vetra. Poi, terminato il supplizio, pezzi di corpo s’cinchiati dallo squarcio, quel fiato d’orrido brigante viene alfine liberato dalla lama del mastro boia. E svelto si invola. Si disperde nelle nebbie. Ritorna ai nostri boschi. Do’ che semm num.
Queste storie fan pagura. Ma fa certo più terrore l’urbana pestilenza. Le folle informi e cieche. Le strade che paion menare in tutti i luoghi. Per risolversi nel nulla. Tutto questo, già allora, l’era Milan. Cento mercati. Mille bravi. Ori. Stendardi. Casati. Pulci. Piaghe. Corpi santi. Cimiteri. Tutto vi si vendeva. Ogni cosa si comprava. La vita innanzitutto. Dell’intera moltitudine plebea.
Ma tra i boschi intorno alle mura, in quell’incarnirsi di ceppi uliginosi e radis e scepp nella terra nostra e vasta, un uomo poteva fors’ancora dirsi tale. Lo era al cospetto di una natura servatica e materna; dei legni e delle carni che gli si offrivano, in diretta proporzione alla forza, all’astuzia, all’ingegno di cui era buono.
Qui da noi son sorti innumerevoli schiatte di bracconieri. I sfrosadur di busch. Che tali son divenuti quando Legge e Stato han voluto così fosse. Ché prima ognuno andava a cercarsi di che mangiare a suo diletto e piacimento. Lì. Nel bosco. In del garbuji di rovedigh. E lo feva scovando tane, seguitando le piste merdose degli uccelli migratori. Che poi vagabondando ci si trovasse dove altri reclamavano diritti, nelle terre dei signori, a nessuno gli era a male. Era giusto, si doveva: per sfuggire dalla fame, rincorrere la preda, usmala, stanàla,rampàla;
foss’anche nel signoraggio delle canoniche, dei fondi agrari, dei dominii padronali. Eran tutti questi proprietà dei conti milanesi o dei loro manutengoli locali. I sciori gh’han la terra, tucc i alter al fum rostii. Ma il bosco, il groviglio dell’incolto, quello no. Lì il blasone era pari a melma. A fronte alta lo si poteva traversare. Facendo buona cacci, tanta legna. Senza mai doversi vergognare: della fame, della scrofola e pellagra, di un nome rinnegato.
Il bosco del Riazzolo era ciò che rimaneva della foresta che, principiando dalle mura di Milano d’occidente, punto a punto tesseva la piana lombarda fino all’acque de Tesin. Per la fame di migliaia di nuove bocche, i suoi avamposti estremi avevan dovuto nel tempo pagar dazio ai coltivi del ris e del mergòn, allo scavo dei canali, alle rogge, ai marscid. Di ciò che nei secoli si era esteso in queste terre fin dove moriva il sole ben poco ormai fioriva di suo; quanto ancora però bastava per assicurarsi la giusta riserva di carne, di legna, di vita. E se la folcia e l’ascia n’avevan via via smorzato la spuma primordiale, pur sempre, dinanzi alla sua maestà boschiva, ci si doveva rispettosi inchinare.
Un vasto tòcch de terra, infatti, tra i comuni di Albairaa, Cislian e Corbetta, due miglia appena foeura de Bià, anmu lo racchiudeva.
Nei giorni di nebbia, quando l’occhio faticava all’orizzonte, ancora imponente nel su’ destar meraviglia, l’alta muraglia degli alberi in schiera, per chi riveva dai campi, appariva all’improvviso. Se il vento spazzava la piana, moveva le fronde, scorliva i bròcch, non era poi raro, per chi affondava i pee nei campi accanto, scambiar il fronte più esposto del bosco, per un grande e intemerato esercito: che stesse in quel mentre marciando nel tentar la vittoria.
Eran, queste, visioni che portavan dritti indree ai tempi in cui Ambroeus Vares da Rosaa, protofisico di Ludovico il Moro, Duca de Milan, spesso amava cavalcare da queste parti; ch’eran tutte sue di proprietà, in quanto donategli da quel disgraziato di uno Sforza: ma anche ai secoli delle calate lanzichenecchi, dei Grigioni spietati, di Svevi, Burgondi, Franchi, Alemanni; di ogni furbo che bene avesse intuito quanto spesso ai lombardi faccia vezzo di farsi sottomettere e umiliare. E che qui trovava larga e spaziosa la via per il chiaro Tesin, il guazzo del Po…