Il Bestiaccia, cap IV

Solitamente il Gioé dava il meglio di sé nella notte. E’ nell’oscurità che il bello della vita lo si coglie per il pieno. Questo lui diceva. Questo è. Per il resto camminava. Trafficava. Stava zitto e pedalava. L’eva ‘n Batusu.

Quella mattina, il Bestiaccia, se lo trova appena fuori che lo spetta nel cortile. Non è a gambe larghe come solitamente s’atteggia. Non ha le mani sprofondate in saccoccia, né siede sulla pietra del fontanin come fan l’altre schiatte di cristiani del paese. Poggia invece la schiena al muro, il ginocchio piegato ad angolo di modo che la suola della scarpa sia anch’essa a pelo dei mattoni. Così sosteneva il peso del suo corpo intero. Con schiena dritta ed ampia suola. Fumando la cicca di un Toscano. Un tale atteggiarsi, mistura genuina di scaltrezza e ardimento, era tipico di cert’anime allegre. Dei bulli generosi. D’un dritto. E altresì voleva dimostrare che l’attesa era importante; la postura di certo riservata ai migliori appuntamenti: la femmina che s’andava a morosare, un nemico da affrontare, il più caro tra gli amici. Tutto, nel Gioé di quella mattina, avrebbe suscitato ammirazione. Gli occhi gli si lustravano nel chiarore nebbioso. Affilati, sornioni, ridenti. Schioccavan le labbra a gustarsi il buon tabacco, la falda del cappello a mò di baldanza spesso sfiorata dal pollice destro.

“Son stato qui che è abbastanza – Sfiata sereno – Doman ciapi su e meni tòll. Vado a Milan. A tirar su un po’ di roba buona. E sto via per un po’. Per questo che son venuto a salutarti. Perché per un po’ non ci vedremo. E perché ta see ‘n mè amis.”

Il Bestiaccia luma da capo a piedi quell’uomo alto, rasato, scarpe lustre e ben conciato; bella giacca, gran cappello, che inscì in tiro l’ha mai visto. E ride, il briccone, ride forte.

“Dove sei andato a prenderla tutta la roba che c’hai indosso Gioé? Questa chì l’è ròba che gh’han su i scior domà. Son vestiti che ti costano un occhio nella testa.”
E subito le mani, artigli golosi, si mettono a pastrugnare il bell’ordito della giacca, ne gustano il tessuto.

Il Gioé smiccia coll’occhio furbo quel rospetto che mai si fa gli affari suoi.
“Damm a trà Bestiascia. Va’ che le robe che c’ho su son per quelli che ci san fare. Mica come te che di notte vai in giro a far disastri tra i conigli e le galline.”

Il Bestiaccia mastèga amaro. Pure rospo, lui l’è de quej che si fanno rispettare.
“Te sei venuto a salutarmi ché vai via. – Stringe tra i denti la rampogna – Vai vai Gioè! Che mì ta fermi no! Io di te c’ho mica bisogno! Ma rangi inscì per mì car al mè dritto!”

E di furia scappa via. Non si volta nemmeno quando il Gioé lo chiama e lo richiama. Corre, corre, corre. Fin quando il cuore gli smette di pompar la rabbia grama. E’ allora che si incorge di trovarsi a non più di due passi dalla stalla dove il padre da giorni si rincagna a lavorare. Lo vede fuori, lì che mostra a un giuinòtt come bene si rimesta la palta e la calcina.

Era quello il santo tempo in cui s’andava a rammendare le cantine, i sorée, i spazzacà, gli stabili dei porci, gli anfratti ruinosi e i tetti delle stalle. Accadeva ogni anno, inverso l’autunno, a raccolto terminato e più sazi i bei granai. Ci si dava di gran lena, poco prima delle crude gelate, che allora già fiorivano agli inizi di novembre, poc’oltre al San Martin, quando i pelabròcch delle cascine sparse intorno facevan gran fagotto per cercarsi nuove terre da poi metterci la mano.

Riassettare, sistemarli come si deve, i cascinali era un rito tribale. Da svolgersi con scrupolo, dedizione. A ciò ci davan dentro schiere di paisani e muratori, con al culo lo stuolo chiassoso dei magutt, i garzoni; che ai mastri recavan quadrelli e mattoni, calcina, travi, assi, beole, putrelle, fiasch de vin. Non un fiato, un pensiero, non un pet, andavano allora perduti. Eran troppo preziosi.

Le volte delle cascine! Drizzate in mattoni. A resca de pess, via via a congiungersi nel punto più alto; che a sé chiamava quel morbido ventre di cotto lombardo. Ogni murmure respiro custodivan gelose le volte delle cascine. E la preghiera e la bestemmia e la risata in loro trovavano l’estrema ragione, la significanza, l’antiche nostre verità.

Il padre del Bestiaccia era certo un bravomo. Nulla gli mancava in fatto di modestia. E virtù familiare. E conoscenza di quanto la vita sia un grumo di poore robe raccolte per lo più d’accatto. L’eva on paisan, un contadino della Bassa. Lì c’era nato, trii stambergh e dodes vacch, da famiglia generosa per ingegno e per bocche da sfamare. E se mangiare lo si doveva tutti i giorni, a ciò non bastava la forza bruta delle braccia al lavoro per i campi. Occorreva ingegnarsi, fà ‘ndà ‘l coo. Quando il campo era seminato, la stalla ben nettata, la vacca stracca mansueta, altro non si poteva che chinarsi alla minestra. Una volta raschiato il piatto, rimaneva la notte intera per sognar di carne arrosto.

Era allora che ci si rivolgeva all’antico padre di quelle genti di pianura: al busch del Riazzoeu. Lì, nel groviglio, tra le piante, i rovi, le radici e le acque a sfioro, la légora certo non mancava, il fasan covava la sua tana, la quaja, l’anatra, la sgnepa, il loro nido. Così era da sempre.
Dall’intrico di quei rami pencolavano leggende più che oscure; come già, nei tempi che bande di lupi lì tenevano congrega, le teste di quelli massacrati al suon dei corni e delle pive.