Recensioni
CARTOLINE DAI MORTI
a cura di Silvia Longo
Una vita che non ricevo o spedisco cartoline. Ne ho quasi dimenticato il senso. Si scrivevano, ricordo, per illustrare viaggi: Baci da Rimini, Salutissimi!, Il mare…il sole…il cielo… Punti esclamativi e di sospensione a schioppettate, spesso il piacere malcelato di produrre invidia nel destinatario. E mai che dicessero qualcosa di importante.
Così “Cartoline dai morti” di Franco Arminio suona bene di intenti. Come un risarcimento per ogni cartolina inutile ricevuta o inviata. È un libro piccolo per formato, ma contiene ben 128 storie brevi raccontate da diversi narratori interni che, in poche righe, si presentano al lettore per poi congedarsi. Sono voci di persone morte che accennano a chi sono state nel mondo, al modo in cui hanno vissuto e alle circostanze in cui è avvenuto il loro decesso. Ci scrivono da un luogo non meglio precisato, forse una zona di confine, un altrove che induce reticenza a essere compreso e spiegato:
“Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare.”
Della morte sembrano non aver penetrato il mistero, e di conseguenza non sono in grado di svelare qualcosa che possa rassicurare i vivi, o costituire iniziazione:
“Nessuno mi aveva spiegato niente. Ho dovuto fare tutto da solo: rimanere fermo e muto, raffreddarmi, iniziare a decompormi.”
Voci nel vento, viene da dire, che si affacciano a una ribalta effimera di luci:
“Ero un maestro elementare in pensione. Ero vedovo da poco. È questo è tutto.”
In questo libro, tono e senso si allineano perfettamente, sino a divenire un unicum. Ed è la fulmineità – il nitore improvviso con cui un lampo accende il mondo per poi riprecipitarlo nel buio – il senso: la caducità della vita, le sue trame sottili, il suo splendore che si estingue all’improvviso “di un dolore a caso”, per citare Fossati. Coerentemente, anche per la forma l’autore compie una scelta di concisione estrema, affidandosi a un linguaggio immediato e diretto, a frasi scarne.
“Io sono morto mentre facevo l’amore con una donna che avevo conosciuto un’ora prima.”
Di ciascun personaggio emergono carattere e approccio personale al senso di vita e morte. Mantengono, anche da defunti, la loro identità, e talvolta vi si aggrappano nonostante ne percepiscano l’inutilità:
“Mi chiamo Mario. Mi chiamavo Mario anche da vivo, ma allora il mio nome serviva a qualcosa.”
Si percepisce di alcuni una sorta di urgenza a dirsi, come se ancora rimpiangessero qualcosa della vita, come se il modo in cui l’hanno persa “ancora li offendesse”:
“Sono sempre stato un tipo tranquillo. Non meritavo di finire sotto un camion.”
Altri parlano di chi resta e perpetua il rito della memoria, tanto da farli sentire quasi vivi, in una sorta di “celeste corrispondenza di amorosi sensi”:
“Nella bara mi hanno messo tante bambole. E pure la lapide è piena di giocattoli. Mia madre a ogni compleanno mi compra una cosa nuova e me la porta.”
Di altri ancora si coglie invece il distacco, un trattare il proprio trapasso come fatto inevitabile, addirittura grottesco per il modo in cui si è verificato:
“Il giorno dell’apertura della caccia qualcuno mi ha scambiato per una quaglia.”
Vi è anche chi interpreta la morte come sollievo, soluzione, evento necessario alla liberazione.
“Quel vago fastidio che era sempre stato il mondo, quel vago fastidio di essere al mondo è finito all’improvviso.”
Dio è il grande assente, colui che non interviene nemmeno se invocato o bestemmiato. Nessuno pare percepirne presenza o potenza salvifica. È piuttosto il caso a dominare le esistenze, nonché il modo ed il tempo in cui la morte sopraggiunge:
“Ero rimasto a terra nella mia vigna. Ho chiamato dio e la madonna e tutti i santi. Volevo che qualcuno mi aiutasse e invece è venuto a piovere.”
In virtù del tono scelto dall’autore – sobrio, spesso ironico, mai lamentoso – la morte, pur mantenendo la classica connotazione di cesura, perde il senso epico della tragedia, e si stempera in una constatazione, a tratti rassegnata, a tratti dolente, di ciò che è accaduto. Emergono, di volta in volta, rabbia, disincanto, stupore o tenerezza nel ricordarsi, nell’osservare dall’esterno il ciclo di vita che si è concluso.
“Mi dispiace per te, ho detto a mia moglie che mi stringeva le mani. Nessuno quando stiamo bene ci stringe le mani in questo modo, nessuno.”
“Nel manicomio, verso le cinque del mattino. Il mio vicino mi diceva: non morire, non morire, domani viene a trovarti tua figlia, non morire, aspetta che ti viene a vedere, non morire.”
Tutti i narratori, indistintamente, ci introducono nell’atto più confidenziale del loro percorso umano, il più fragile, il più solitario: quello della morte. È di questa intimità che ci si ritrova partecipi, nel leggere. E se, a seconda dei casi, potremo sorridere o commuoverci, ci sentiremo comunque coinvolti. Perché:
“Pure io, sì pure io.”
Inevitabile l’accostamento di questo libro alle epigrafi della classicità. E soprattutto all’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters. Entrambi sembrano indurci a una riflessione sul valore di ogni singola esistenza, sul paradosso dello spendersi per poi morire.
A lettura compiuta, resta soprattutto ciò che è sotteso: la paura di quel salto nel vuoto a fine corsa, il pudore che ci trattiene dal dichiararla. In questa ottica, “Cartoline dai morti” costituisce una rielaborazione anticipata del lutto, un esorcismo al panico, un’ammissione accettabile di saperci mortali.
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