Recensioni
Lettere Nere di Andrea Raos
Scriversi. A se stessi, soprattutto, solo congiunto / non per letteratura, guadagno e gloria / o comunicazione o dolore aggiunto / a un fondo scuro, sul bordo di memoria. E vergare pagine nere di inchiostro, nell’oscurità di senso difficile da dipanare, cercarsi nell’autobiografia come un cieco in ansia costante di piede in fallo, folgorato da ricordi tanto necessari quanto incerti nella ricostruzione, adattati a trasposizioni emotive, deteriorati dal tempo che, scorrendo, cambia luoghi e persone, e altera la fruizione primaria degli accadimenti.
(Potendolo, cambieremmo qualcosa del passato? Esistono percorsi alternativi a quelli vissuti, immaginati, sognati? Cos’è che conta, alla fine: la vita davvero vissuta o quella ri-costruita a posteriori? Quale l’indicatore per dichiarare fallito o riuscito l’esperimento chimico dell’esistenza? Quale è il precipitato nella tua provetta, cosa leggi sul vetrino del tuo laboratorio?)
Vita già morte è l’autobiografia, necessaria quanto rischiosa, immaginando a cosa potrebbe (non) servire. Sapendo i limiti stessi del meccanismo memoria-scrittura (e resti sofferente di un dolore che le parole non trattengono con sé, non in quanto troppo grande ma perché privo di nome). E la ricerca di un senso a questo stare – e essere stati – in determinati frangenti e spazi, figurine stagliate su diversi fondali, incastonati in un reticolo sociale rumoroso, musicale, intermittente di carne e luci, impastata di secrezioni sogni e sentimenti, animata da immagini che scorrono come in un film – comunicazione, linguaggio visivo, forme di arte che si vorrebbero definire nuove. Un’umanità che si muove a ritmo di coreografie ricorrenti e collaudate, al cui interno l’individuo perde valore, tutti presi e persi come si è nel viaggio spazio-temporale, spesso orbi di autocoscienza, facili ad agire e pensare in gregge. Per finire con il fracassare in una sorta di suicidio di massa omologata: il lemming insegue il picco più profondamente inciso per sbocciare a milioni, alla superficie dell’oceano a milioni contro le onde come solo movimento, grido il balzo banale già sbocciato addosso all’acqua calcolabile all’impatto. questa la certezza di uomo d’affari della terra.
(Procedere così: ha un che di virale? Si può sfuggire al contagio?)
Vivere e raccontarsi, assaggiare il risucchio potente del vuoto che attrae gravitazionale dall’affaccio al quinto piano, in piena notte. Eludere tuttavia la fine, perché la fine dell’uomo non fa parte del sogno, che si interrompe appena prima giacché a quanto pare non è possibile sognare la propria morte.
Restare, nonostante la logica di causa-effetto che domina l’esistenza, compi un gesto e non sfuggi alla conseguenza, all’eco, all’amplificarsi e ripercuotersi che ti crolla addosso con l’immensità di una colpa universale.
Restare vivo e pulsante di musica, scosso nel violento interno delle Circlesongs di Bobby McFerrin -come dire, nel loop, nel circolo vizioso – assente dal futuro, latitante al presente, a ogni giorno vissuto correo con lui – in re – e nella comprensione esatta di una battuta (quattro terzine di trentaduesimi in una Partita per violino solo di Bach), evento che sconvolge qualsiasi visione io sperassi o mi aspettassi dalla musica.
(Promemoria: leggere da spartito e ascoltare questa battuta.)
Restare e scrivere in virtù del gusto innato per l’ostacolo, senza cedere al non poter vedere, per prendere fuoco solamente. Fuori dalla retorica dell’uomo-eroe, dal lamento narcisistico di chi si addita a emblema della sofferenza esistenziale. Per inseguire i ricordi – loro non sperano che uscire – e scriverli e ribatterli a punto doppio giusto sul bordo della piaga-memoria. Cercando una connessione autentica tra oggetto e paesaggio, tra corpo e ambiente, tra poesia e prosa. inseguendo un ritmo personale, che si fa respiro nella punteggiatura, e musica, suono e significato in perfetto equilibrio.
(Con la prosa, forse, ti puoi camuffare. Mentre la poesia, se non è esercizio formale, denuda.)
Restare per scrivere e leggere – quando leggi la tua solitudine è completa, dimentichi la vita che ti scorre intorno, quasi non senti neppure il peso del corpo (…) dimentichi la sofferenza e il mondo esterno, il disordine e il caos (…) non sei, non credi di essere il vuoto regolante della terra che da spettatore – lo sai, lo hai provato mille volte – ti si para innanzi e ti guarda feroce, imbellettato da baldracca carnivora che altro non chiede (…) che di farti precipitare urlando.
Vivere, non “sedendo”, non “mirando” la mia morte nel tardo / rivestirsi umana un’altra volta mi accosto al guado / lunare per chiamarti amore eppure, dove vado. Sebbene intimorito dal crepuscolo, dalla violenza intorno coltivata con fierezza “americana”, dall’abuso di un certo genere di potere mediatico, dall’ipocrisia anche inconsapevole – a tratti – di chi crede o vuol farsi credere controcorrente, da una società che teme e quindi distrugge ciò che percepisce diverso da sé.
(Se fosse un film, questa vita?)
Restare e fare della memoria il meccanismo catartico, che il ricordo ricordato sia quieto o terribile, per diradare certe oscurità o per imparare ad amarle
un passo / dopo l’altro dietro maschere di tenebra, oh / bellissima tenebra.
Andare, quindi un altro passo ed uno ancora, scandirne almeno da sette a undici a ogni boccata d’aria, ogni colpo battuto sull’asse naturale della caviglia (…). Così il corpo e una mente ridotta al minimo, al sorvegliare i flussi sanguigni e le contrazioni polmonari, al circoscrivere le fitte alla milza, si fanno una cosa sola con il tragitto da compiere.
(Uscire e perdersi.)
E non smettere l’attesa dell’amore, e che so immaginare fisicamente la persona che amerei per sempre – ho persino la presunzione di avere le idee chiare su ciò che mi piacerebbe dei suoi discorsi o della sua vita, su come piacerle.
In attesa della venuta dell’amante meraviglioso (non si tratta della morte, no, ma che sarà soltanto un semplice, un autentico amante,
vero corpo conoscente
per via della propria carità mortale.
(Le virtù muoiono con la carne? Esiste davvero l’amante meraviglioso?)
Tutti i corsivi in grassetto sono tratti da Lettere Nere di Andrea Raos, Effigie Edizioni, ottobre 2013
Andrea Raos (1968) ha pubblicato Discendere il fiume calmo, in Quinto quaderno italiano (Milano, Crocetti, 1996), Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Roma, Pieraldo, 2003), Luna velata (Marsiglia, cipM – Les Comptoirs de la Nouvelle B. S., 2003), Le api migratori (Salerno, Oèdipus – collana Liquid, 2007), Lettere nere (estratti), in AAVV, Prosa in prosa (Firenze, Le Lettere, 2009) e I cani dello Chott el-Jerid (Milano, Arcipelago, 2010).
Ha curato l’antologia di poesia contemporanea italiana e giapponese Chijô no utagoe – Il coro temporaneo, prefazioni di Nanni Balestrini e Yoshimasu Gôzô, traduzioni di Tarô Okamoto e Andrea Raos (Tokyo, Shichôsha, 2001).
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