LA SIGNORINA RICHMOND – ALLO SPECCHIO E OLTRE LO STESSO – SI INTERROGA SULLA PROPRIA IDENTITÀ GIUNGENDO INFINE ALLO SVELAMENTO DI SÉ

Chi, cosa sono? Tutti mi vogliono, nessuno mi si prende. Lo specchio riflette, e pure io.

foto (59)

Intanto non sono sposata, e molti infieriscono “zitella!”, ma intanto mi desiderano, perché sono bella, gli ispiro versi scioglilingua, io, musa splendida e strana, sono dada sono la Mutter di Duchamp, ma la Grande Bellezza Libera mette troppa paura – tutti mi vogliono nessuno mi si prende.

“Appetitosa”, mi dicono, così mi penso cacciagione cucinata a dovere, disossata, lessa, spellata, arrostita, tutti a volermi infilare spiedi e altre cose per sezionare, per il sapore – anche quelli sono modi di possesso – ma io fuggo, e tutti mi vogliono nessuno mi si prende.

Colori ne ho profusi sul piumaggio – e volooo! -, sono un’ uccella technicolor dream, ma resto bianca di fondo. Candida, passo pulita attraverso la merda del Sistema, mantengo la purezza del non sapermi esattamente, del non capire precisa perché e percome, ho ginocchia di latte e tre nei, non vogliatemene per questo, non sono le imperfezioni ad aggiungere valore all’arte? “Ma cos’è l’arte?”, loro non sanno: tutti mi vogliono, nessuno mi si prende.

Sotto le mie dita pare avvengano miracoli (che io sia dea?), anche per questo sono molto corteggiata, e devo scegliere tra i pretendenti: capire chi mette le bombe, e perché chi dovrebbe non lo sa fa. I miei amanti potenziali sono pance operaie (non certo teste) col terrore di restare vuote mentre sgobbano a riempire pance borghesi. Vorrei dirgli: solo l‘odio scopa bene, solo l’odio è la “Scopa del Sistema”, se vogliamo fottere i borghesi. Ma gli metterei paura. Io sono il fiore deflorato della rivoluzione, e tutti mi vogliono, ma nessuno mi si prende.

E, ormai si è capito, io sono una che si fa troppe domande, sono un labirinto, una ciambella in divenire. Quando credo di fare la mia rivoluzione libera, cado nelle mani di un Egidio qualunque e rispondo, sciocca!, sì che rispondo. E quello mi fotte.

Fino a quando dissi basta. Così, prendendo il té con Anna K., parlavamo di treni e del suicidio dei sentimenti, e le ho detto “bella, io sto così bene adesso che ho rinunciato all’amore, adesso senza aspettative – tutti mi vogliono, nessuno mi si prende – e amo me stessa e mi corteggio da sola e mi basto, peccato che nemmeno un tappezziere a pagarlo oro per un lavoro di conformismo azzurro a piccoli disegni, per far contenti i miei. Ma si deve mantenere la calma, lama o non lama, chi l’ama la protesta studentesca, la lotta operaia, il precariato da anni chi l’ama, chi lo paga, facciamo sacrifici, almeno per i giovani che non hanno prospettive”.

Così parlando mi tornò voglia di lotta di classe, e andai dalla signora Rosa. Credevo sapesse cose, invece mi fece solo un gran pippotto per insegnarmi come stare composta e seduta, e in quel momento capisco: è solo una questione di (im)posture, se vuoi fare bene la rivoluzione e soprattutto se vuoi godere. Di posizioni:
“Ti muovi sulla destra poi sulla sinistra resti immobile sul centro e provi a fare un giro su te stesso un giro su te stesso”, il ballo del potere che persino Battiato lo sa, e posso anche capirli, soprattutto i disoccupati (facile attrarli con manciate di becchime nelle piazze e poi irretirli catturarli autodafè), volevano ammazzarli, poi curarli, usarli nei campi di tiro, infine li portarono a perdere come gattini nelle campagne. Che non trovassero più la via del ritorno. Disorientati tra Sinistra e Destra, li posso comprendere, mica tutti sanno che l’oriente è Giulietta.

Comunque Alice ha capito tutto, che il nostro è il Paese più libero e paziente del mondo, è come un cane, ma se gli togli l’osso, eh, e allora le volevano tagliare la testa, ma lei ha detto “siete solo un mazzo di carte”. Che statura di donna! E io mi sentivo il due di picche, magari le avessi pronunciate io quelle parole, qualcuno mi avrebbe voluta davvero. La viltà è davvero tremenda, come è tremendo che non mi invitino al gran galà degli intellettuali valorosi. Perché io sono L’Oreal, io valgo. Nonostante ciò, tutti mi vogliono, nessuno mi si prende.

Dopo tutte le maschere del caso – cosa non si per stare in società!- decido e me ne vado dolcemente altrove. Troppi appellativi divergenti, e troppi che mi vogliono e nessuno mi si prende. In Francia studio coreografie di parole, divento ballerina. Poi mi decido al ritorno.
Tornai, ma l’Italia era peggio, era ancora più serva e bordello. E nessuno che ardisse uscir dalla gabbia. Si ostentavano lussi e storie di violenza, e sempre dubbi su cosa indossare per essere degni, e tutti avevano un cane, il cane quotidiano, un cane da raccontare con la gente che muore di fame. E la lotta di classe adesso era un arrivismo di formiche, e tutti i ricchi navigavano a gonfie vele alle feste, e il gran finale si celebrava a Chernobil.

Intanto io non infilo in rete manco una palla (non sono calciatore, questo è certo, né velina a lui d’intorno), vago in giro, e mi perdo mi perdo mi riperdo. Finché una sera vado a un reading di poesia, e c’era un signore, non so, mi è piaciuto, dice qualcosa come:

Eccomi qua ancora una volta
seduto di fronte al pubblico della poesia
che seduto di fronte a me benevolmente
mi guarda e si aspetta la poesia

come sempre io non ho niente da dirgli
come sempre il pubblico della poesia lo sa benissimo
certamente non si aspetta da me un poema epico
visto anche che non ha fatto niente per ispirarmelo

l’antico poeta epico infatti come tutti sappiamo
non era il responsabile della sua poesia
il suo pubblico ne era il vero responsabile
perché aveva un rapporto diretto

con il suo poeta
che dipendeva dal suo pubblico
per la sua ispirazione
e per la sua remunerazione

la sua poesia si sviluppava dunque
secondo le intenzioni del suo pubblico
il poeta non era che l’interprete individuale
di una voce collettiva che narrava e giudicava

questo non è certamente il nostro caso
non è per questo che siete qui oggi in questa sala
purtroppo quello che state ascoltando non è
il vostro poeta epico

Lui parla, il poeta moderno, e poi mi vede, mi guarda, così gentile, e sta parlando con me, lui sta parlando di me:

solo
o anche davanti al pubblico della poesia
dialoga individualmente con la sua poesia

la immagina naturalmente come un’affascinante signorina
e vorrebbe che anche voi la immaginaste così
che si trova in questo momento qui di fianco a lui
cioè a me e cioè dunque lì di fronte a voi.

Così ho capito chi sono, alla fine. Credevano – così mi avevano fatto intendere – di essere metafora dell’Italia negli anni del buio, credevo di essere la spettatrice volenterosa e inabile dello sbando, credevo di essere donna zitella e uccella. Invece sono la sua poesia. Non un personaggio, come le altre, Felicita e Carla, ma proprio LA poesia. E tutti mi vogliono, e qualcuno – forse – mi prende.

Poeta e romanziere, nato a Milano il 2 luglio 1935, vive attualmente tra Parigi e Roma.
Agli inizi degli anni ’60 fa parte dei poeti “Novissimi” e del “Gruppo 63”, che riunisce gli scrittori della neoavanguardia.
Nel 1963 compone la prima poesia realizzata con un computer.
E’ autore, tra l’altro, del ciclo di poesie della signorina Richmond e di romanzi sulle lotte politiche del ’68 e degli anni di piombo come Vogliamo tutto e Gli invisibili.
Ha svolto un ruolo determinante nella nascita delle riviste di cultura “Il Verri”, “Quindici”, “Alfabeta”, “Zoooom”.
Attivo anche nel campo delle arti visive, ha esposto in numerose gallerie in Italia e all’estero e nel 1993 alla biennale di Venezia e nel 2012 a Documenta di Kassel.

(biografia tratta dal sito nannibalestrini.it)

I testi in corsivo sono tratti da “Le avventure complete della signorina Richmond” di Nanni Balestrini