C’era una volta un tacchino

Era il Natale dìl anno 1982, avevo quàtro ani, ed ero sidùta intorno adì un tavolo rotondo, in casa de zia Ana, a Dąbrowa Białostocka. De fianco a me, zia Ana, mia màtri, zio Iosif con capèli già bianchi, e meo cugino Boris, e balerìne nude à la televisioni ; in mezi al tavolo, ci era una grandi pentola di tèra cotta. Mi ricordo comi si era ieri l’odore. Era la Żurek di patate, in versione povera, quèla che tanti ani dopo io avevo scoperto – da un racònto di Zia Ana – aveva imparato da sua matri, e chi sua matri aveva imparato duranti la guèra. La Żurek che sua matri aveva cucinato ancora neìl giorno di liberaziòni, e ancora y ancora, di domeniche, per festegiàri la fine dìl conflìto. 

E’ una cosa che ho pensato tanti volti, questa: comi mai, proprio in momenti difìcili, comi la guèra, quando mancano tuti li cose fondamentali, nascono dal niente i piatti meliòri? Quando le galìne scappano tùte da la guèra con lì valigie, e le mùche corrono anche loro via ne i prati, rimani solo un po’ di erba, qualchi patata con i bùti, e dei funghi silvatici.

E’ una cosa, mi sembra, chi sucèdi anche con la literatùra. Nei momenti più grandi di crisi di politica iconòmica o sociali, la literatùra ha sempri uno svilùpo straordinario. Per usari una metafora, è comi quando non tagli l’erba pir tre mesi, e à la fine de la primavera, quando vai in giardino, trovi le familie di nutrie sdraiate con musica nel’orèchie chi prendono il sole. Si può dire senza dùbia che molto del genio, de l’inovaziòni, de la creatività, nasconi in momenti di dificoltà. Si lascia una persona à lo sbando, o pure se (à l’opposto) tu gli togli tùtto, la persona impara ad usari quèlo che ha, e inventa dìle cose nuove.

Questo è sucèsso tanti volti, con tanti scritòri y poeti in tuto il mondo. Me vieni in mente Daniil Charm chi è stato arestàto pir il suo socialismo aìl tempo de lo zar;  Sergej Dovlatov, chi era un giornalista y è stato mandato in esilio;  Brodskij, chi viveva nel’epoca dìl comunismo y è stato condanàto per il reato di parasitismo. 
Per isempio, Brodskij sapete cosa diceva? Chi quèlo in isilio è stato il momento più bèlo di tuta la vita. Mai lui avrèbi pinsàto di conoscere, lègire e studiare la poisìa inglese, per esempia Auden.
E Pablo Neruda, il famoso poeta dìl Cile, tradito da Videla y costrèto a l’isilio anche lui, che ha scrìti dì versi meraviliòsi y ha fàto ritorno solo infine àla sua patria grazie aìl presidenti Salvatore Alènde. E Juan Gelman il poeta argintino: tuta una vita contro la ditatùra. E poi, i tanti poeti di origini spagnola e africana chi scrivevono nèli Stati Uniti duranti la segregazione raziàli. E tanti, infiniti in ogni stato, chi ora io non posso elencare tutti.

Non ci è davèro dùbio chi questa poesia, questa literàtura nata in momenti istoricamènti dificili, è così vicina ail cuore de la genti. Ma per quali motivo? Un fila di pensiero dici: assolve in modo più evidenti à la propria funzioni pratica. Un altra fila di pensiero dici però, complicando lì cose, che la literatùra non centra nienti con il mondo, con li funzioni pratiche, y proclama la autonomia de l’arte
Io dico ora, dimentichiamo un àtimo questo dibàtito. Al dilà diquale è la sua funzione essenziali, domandiamoci una altra cosa. Le forme dìla cultura – che lo vogliono o non lo vogliono intenzionalmenti – possono dari vita adìun cambiamento reale socio iconomico e politico?
La risposta è, io credo, è NO. E che se ci provassero, sarèbi come andare in guèra contro il terorismo con li pistole a acqua.
Economia y politica hanno lègi proprie. Anchi miliaia di scritori, italiani, spagnoli, greci, uniti con i loro versi contro la crisi, non credo chi faranno aprire il portafòlio di Angela Merkel. Credo più facilmenti che Angela mostrerà loro – à tilecamere spente – sue mutanda Sloggy a vita alta.
Per avaloràre la mia tesi un po’ secca y materialista, porto un anèdoto di zia Ana Petrova, chi più che un anèdoto è un una parabola, e più che una parabola è una storièla per fare tacere i bambini che voliono avere ragione su i genitori. Questa è la storia.

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C’era una volta un tachìno dentro diùn polàio chi voleva fare la rivoluzione contro aìl contadino. Ogni giorno, il tachìno, spiegava a tutti le galìne ai pòli e àle oche quello che si doveva fare: sicòmi non avevano armi, fucili o bastoni – diceva loro – avrèbero dovuto, una matìna, urlare molto forte tuti insieme, in modo da faci scapàre il contadino per il male di orèchi, e poi sarebìro scapàti dail cancèlo aperto. Ma il matìno che tutti si mètono a gridare i loro versi, il contadino si ràbia molto, entra nil polaio, prende il tachìno (che faceva più rumore di tùti li altri) e lo amàzza. Gli animali à l’improviso stanno tuti zitti. Ed ècco chi ni suno vuole più fari la rivoluzione.”

La storia di zia Ana non solo raprisènta – io credo – molto bene la sorte delà letteratura, ma mi ha anche permesso fino ad adèsso di eludere la domanda di partenza. Qual’è la funzione di là letteratura? Pratica? Di autonomia?
Amettiamo che la scrittura non ha scopo pratico ma solo isprissivo (autonomia de l’arte): alòra comi mai,  dove uno scopo pratico sembra emergere netamènte (lotta per disuguaglianzi, lotta aì governi…) essa sembra dipù viva e pulsante, più blu, più elettrica e frizzante, comi si fosse, appunto, più vicina al proprio Tèlos*?
[*Tèlos: parola greca chi significa “fine ultimo”. L’ho lèta su diùn articolo di Umberto Eco, quèlo famoso filosofo che non va in pensione]

Facciamola breve, facciamola tutta y facciamola in fretta: l’autonomia del’arte è una cazàta. Anchi se anche lo scopo de l’atuore non è diretamènti pratico, i risultati di un opera sono sempri pratici. Anchi si Juan Gelman non voleva avelenàri, con i suoi versi, il presidenti Videla (e forsi non è l’esempio meliori), la sua parola è venuta, à la fine, ad avelenàre l’aria del’Argentina.
I risultati di un opera sono sempri pratici, perchè è sempri posibile almeno una interpretazioni de l’opera legata à l’attualità. Che l’autore lo vuole o meno.
Facciamo ora la seconda metà, quella più dura, de la cacca teoretica. Ho detto che la letteratura, che lo vuole o meno, è sempri in rapporto libero interpretativo conìl mondo esterno y con la prassi. Ho detto inoltre, ancora prima, che se la letteratura anche ha uno scopo pratico per sua intenzione, questo non può arrivare completamente e facilmente a distinazione. Il tacchino senza armi viene amazzàto; il poeta senza armi, senza sostegno politico, senza apòggi, viene anche lui amazzàto. O puri costretto à l’esilio. O puri incarcerato. O pure rimane lì come una pianta grassa a cantare i suoi versi sul balcone controllato da la polizia a cento metri. O pure, ancora, se proprio è un poeta scarso, non gliene frega niente a nessuno perchè anchi se parla di poltica fa talmente venire lè emoroidi chi nesùno lo legi.

Proprio a questo punto, nasce il ventiquatrèsimo problema teoretico: posto quello che è stato posto, in che senso si può parlari di una funzione pratica in letteratura?
 

Chiudo tra poco velocemente l’articolo per non affossare la mia posizione intelletuàli già precaria. In che senso si può parlari di una funzione pratica, io debo dire, non lo so. Le uniche cose che mi vengono in mente, le elenco qui di seguito in ordine casuale.

  
a) La literatùra, se ci fate caso, fa un lavoro sporco, che la magiòr parti de la gente se ne acòrgi dopo. La literatùra gràta il fondo sporco di là padèla, prima chi la padèla finisci in lava stoviglie. La leteratùra pianta lì patate in mezzo al campo minato, mentre tuti stanno atenti à non saltare per aria. La literatùra depila acuratamente il prato dìla storia.  

 

b) Se uno è nero y scrive i versi di rivendicazione nell’anno 1910, ni suno lo caga; si uno è nero y scrive i versi di rivendicazione di fianco aìl sedile di Rosa Parks nel’anno 1955, questo ha un valore più cuocente. Se uno, infìne, è nero y scrive i versi di rivendicazione nela sua villa a Washington con dietro il ritràto di Barak Obama, beh, lui fa la figura deil ciùla*
[*ciùla: dialèti milanese]

  
c) Le persone che, durante un certo momento storico, hanno acesso alla cultura definita “clandistina”, si possono sentire – secondo me – in due maniere distinguibili ma non sempre distinte: aràbiàti come iene nel vedere la prorpia condizione di merda scritta sui testi, o dolcemente sognanti – comi di fronte ale publicità dele prime lavastoviglie nèli anni ’60.
Immaginiamo una persona povera de la russia sovietica che legge i versi dei poveri poeti russi antisovietici. Da una parti, c’è la ràbia data dal riconoscere la propria condizione.
I poeti romeni ai tempi di Ceaușescu –  scrivi la poitessa mericana Tess Gallagher – codificavano la loro oposiziòni ai despoti dicendo che c’era freddo. E la gente, leggendo che c’era freddo, sembrava che solo allora si accorgeva veramente del freddo (reale e politico), y non lo sopportava più.
Da l’altra parte, c’è anche una speci di dolcezza di identificazione. Essa fa dire à la gente, davanti à i versi “Anch’io! Anch’io sono così! Uguali! Me hai copiato, o io ho copiato te? Ma guarda che storia: è la storia! E’ il grandioso prato della storia! O puri no, aspèta, forsi con la cosa deìl comunismo ce stànno inculando a tuti. “  

Sveltana Petrova