Recensioni
DAFNE – Il mercato dell’insensibilità è chiuso per inventario
Pare che i primi fazzoletti siano stati avvistati nell’Antico Egitto.
Ad un certo punto arrivò il sig. Kleenex e divennero di carta.
Non si sa quando invece sia comparso quel fenomeno sociologico per cui la gente si vergogna di poche cose come farsi vedere mentre piange, soprattutto in una sala cinematografica.
Munirsi di fazzoletti (di carta o altri materiali) durante la visione di Dafne, secondo lungometraggio di Federico Bondi, sarebbe una decisione previdente, oltre che un test.
Questo non significa che tutti si commuoveranno nel vederlo, ma è probabile che in caso contrario ci sia forse una connotazione non riguardante solo un’ostruzione dei condotti lacrimali.
È in quei fazzoletti (di carta o altro materiale) il segreto di Dafne, della sua delicatezza.
Le eventuali lacrime che ne scaturiscono dalla visione sono tutto tranne che frutto di una pornografia del dolore tanto diffusa sia al cinema come soprattutto in altri media.
La scrittura e la regia di Bondi, le interpretazioni degli attori (anche quelle cosiddette minori), perfino la sporadica presenza della colonna sonora non sono lì per sottolineare, anzi agiscono per sottrazione.
Se noi siamo il nostro stile, quest’ultimo è una delle due gambe su cui si regge il film.
Il suo agire per piccoli eventi e con una scrittura in punta di penna che affonda invece implacabile con i suoi dialoghi icastici che invitano ad essere rielaborati con calma una volta usciti dalla sala; il rispetto per la materia trattata, altamente insidiosa; lo stile apertamente documentaristico che fa scivolare gli eventi senza forzarli, fanno del lungometraggio di Bondi un film sussurrato per il semplice motivo che non ha bisogno di prorompere dalle righe, figlio di un cinema italiano a volte inutilmente bistrattato quanto ingenuamente ignorato.
Nel vedere scorrere le immagini del film la testa va allo straordinario “Fiore” di Claudio Giovannesi per il tocco realistico figlio di una lunga indagine sul campo – Bondi infatti ha voluto studiare realmente l’agire quotidiano della Raspanti nonché le attività dell’associazionismo di donne e uomini con sindrome di down – ma anche a “La stanza del figlio” di Moretti, per il tema dell’elaborazione del lutto familiare.
Ma l’altro motore di Dafne è sicuramente la sua protagonista, Carolina Raspanti.
Simbolo di come una disabilità sia una qualità in più e non in meno, la Raspanti è un talento naturale nel rappresentare la vita come andrebbe vissuta, con la dovuta leggerezza e con altrettanta consapevolezza della sua quotidiana difficoltà.
In una società in cui la disabilità è uno stigma e un tatuaggio indelebile quanto disturbante, l’attrice protagonista ci inchioda implacabile fin dalla prima scena, con il suo monito involontario: “Non c’è tempo”, che si lega con una scena culmine che apparirà poco dopo in cui dichiarerà il suo rifiuto nel voler prendere pillole che le evitino di piangere.
Eppure un sottilissimo filo si tende lungo il film: se l’incipit era il culmine del pragmatismo l’explicit è una terrazza da cui vedere il panorama dell’intero film (in un film in cui il paesaggio del Mugello gioca un ruolo non secondario), la chiave di volta che svela la cassaforte artigianale dell’opera, in cui dentro non alloggiano banconote, ma è custodito un palloncino sopravvissuto al tempo (lo stesso presente sulla locandina).
In un’industria culturale in cui trattare argomenti quali la morte e il dolore che ne comporta equivale a diffondere la peste, e in cui la visione della disabilità è solo sfoggio di genialità, Dafne appare come un oggetto non identificato atterrato da un pianeta lontanissimo ma pur sempre del nostro sistema solare.
Si auspica che qualcuno lo scambi per una laica stella cometa.
Giuseppe Rizza
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