DIARIO DAL BELICE Vol.6 (Giuseppe Rizza)

 continua […]   

                                                                                                                         Se le ipotesi fossero germogli
                                                                                                                         io le annaffierei dando dignità
                                                                                                                         a queste parole d’acqua
                                                                                                               (Colapesce – Dimartino, Parole d’acqua)

                                                                              Vol.6
                                                                     (da S.S.Q. a C.)

La strada per il ritorno a Catania riesce a toccare il fondo della nostra incredulità. Quando ripartiamo dal teatro Andromeda, Tina dice che ormai è difficile che l’asfalto possa essere peggio di quello trovato mentre eravamo nella valle del Belice. Eppure. Eppure per un lungo tratto sarà così.

Se mantengo l’incredulità è perché sono ancora vivo o solo perché mi viene troppo facile essere critico?

Giunti a Catania, Tina chiama una famosa rosticceria catanese celebre per le polpette di cavallo, di cui molti catanesi vanno ghiotti.
Io ordino un tipico piatto etneo: dei cipollotti avvolti in una sottile costina di maiale, lei una piadina.
Quando ci consegnano il tutto, il risultato è praticamente immangiabile.
Mi metto d’accordo per incontrare la mattina dopo alcune mie amiche che non vedo da diverso tempo.
È difficile riuscire a pensare, ripensare, solo adesso, ciò che questa giornata mi ha dato.

La mattina seguente incontro Rossella.
Lei è di Catania, non la vedo da diversi anni. Ha dei nei bellissimi, ma è sempre stata di una bellezza fuori dal comune.
Una volta per lei scrissi una poesia che riprendeva smaccatamente una breve canzone di Paolo Conte.
Ricordo che indossava una giacca di velluto, e che ci eravamo incontrati, se non dimentico, nei pressi della Villa Bellini, in pieno centro.
Rossella non può sapere, e io ho scheletri nell’armadio.
La sera prima eravamo rimasti d’accordo per fare colazione insieme.
Le colazioni siciliane sono un mistero senza alcuna spiegazione.
Per me esistono solo quelle salate, ma quando devi fare i conti con l’alchimia di una granita, è facile perdere le proprie convinzioni.
Ci diamo appuntamento di fronte alla Feltrinelli, in via Etnea, l’arteria pulsante nel corpo molle di Catania.
Osservo la vetrina nell’attesa, fino a quando la vedo arrivare.
Ci abbracciamo forte, ed è come se il corpo di ognuno si sciogliesse nell’altro. Io vorrei essere un fiume che accoglie le acque di un affluente, mai come in questi ultimi mesi.
Avere in dono il ricambio del sangue.
Rossella è più magra, ma non ha smarrito il suo sorriso.
Il suo corpo si perde nel vestito nero, leggero, che la copre.
Ci chiediamo da quanto tempo non ci vediamo.
Qualche anno fa, per puro caso, ci siamo incontrati in una spiaggia di San Lorenzo, dalle mie parti, io che andavo via, lei che era appena arrivata.
Però ci siamo visti quattro anni fa, per poco tempo mi corregge lei, per sempre troppo poco tempo vorrei ridire io, poco prima di un concerto, a Catania.
Quello era stato il mio ultimo, a tratti traumatico passaggio in città.
Avevamo mangiato una cipollina insieme a un’amica comune, a pochi passi dalla stessa facoltà in cui avevamo studiato ormai tanti anni prima.
Rossella non ha perso la forma del suo sorriso, la sua capacità ormai involontaria di ricrearlo muovendo timida le labbra.
Mi informa, sapendo della mia insana passione per la tavola calda siciliana, che il bar in cui mi voleva portare per mangiare la migliore cipollina di Catania, oggi, essendo lunedì, è chiuso.
La cipollina, per i non addetti ai lavori, è una sintesi che qualsiasi tentativo di descrizione porterebbe a un risultato falsato. È, per rendere una vaga idea, un pezzo di pasta sfoglia con cipolla pomodoro prosciutto e mozzarella, inutile tentare di replicarlo, malgrado io continui a farlo, con ostinazione, diverse volte l’anno.
Rossella ha spesso compreso la mia amarezza, oggi credo, o forse temo, che la condivida.
La sua magrezza è un osso levigato dalla violenza che questa terra, in particolare questa città, la sua città, emana.
Anche Savia è chiuso, ma accanto, Spinella un’altra famosa rosticceria, è aperta. Vi passiamo davanti, c’è gente in attesa di essere servita, quindi decidiamo di scendere ancora lungo via Etnea.
Intanto parliamo.

Insegna anche lei alle medie, Italiano. Non è contenta. Non è contenta di insegnare alle dipendenze di un ministero che ormai è solo un tempio dannoso alla burocrazia, così come non lo è di vivere qui.
In una via laterale troviamo un bar, ha dei tavolini all’ombra, decidiamo di sederci.
Io ordino una granita metà pistacchio metà mandorla, e la brioscia col tuppo, a cui i catanesi sembrano teneramente affezionati.
Un’amica comune qualche tempo fa mi scrisse che il tuppo, una specie di “cappello” sopra una brioche tonda, è un pegno d’amore, è da lì che si comprende, così lei sosteneva scherzando, quanto l’amato tenga all’amata, quanto cioè lui è capace di rinunciare al tuppo richiesto da lei, per inzupparlo nella granita.
Fra me e Rossella il discorso cade inevitabilmente sulla gestione del lutto, i postumi, le incombenze burocratiche.
Durante i nostri discorsi, pur scusandomi più volte, devo rispondere ad alcuni importanti messaggi ricevuti sul telefonino, e alcune sue parole non mi arrivano con la giusta attenzione che meriterebbero.
Con Rossella fin da diversi anni fa il tempo della condivisione non mi è mai bastato.
Forse Rossella, semplicemente, non mi è mai bastata. Avrei voluto trascorrere più tempo con lei, conoscerla meglio, avere la sua presenza come una costanza nella mia vita, soprattutto in tutti questi anni in cui ci siamo sentiti rare volte.
È la solita nota nostalgica, il giro a vuoto della chiave che non apre.
La granita era accettabile.
Rossella cerca in tutti i modi di essermi di conforto. Spero possa accettare di rivederci insieme a Flo e Martina, nel prossimo fine settimana, quando sarò nuovamente a Catania. Ma non sarà così.
Ci abbracciamo forte, ancora, un’ultima volta.

Ritorno a casa da Tina, la chiamo quando sono dietro al suo portone. Lei alle dodici deve tornare a lavoro, mentre io a ora di pranzo mi vedo con Flo, una mia amica catanese. Con lei ci sarà anche Martina.
Recupero il mio zaino e la mia borsa di tela, saluto Tina e la ringrazio ancora per tutto il sacrificio di ieri, per il suo estremo atto di gentilezza di accompagnarmi in giro per la Sicilia a riempirmi gli occhi di desideri lunghi anni.
Prima di raggiungere a piedi Flo, faccio una capatina da Savia. Tento di giustificare me stesso dicendomi che questo è il terzo giorno consecutivo a Catania e ancora non ho assaggiato una cipollina. L’altra parte di me, che perderà miseramente, mi ricorda che fra poco andrò a pranzo con Flo e Martina.

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Quasi mi ingozzo lungo via Umberto per riuscire a finirla tutta prima di salire da Flo. La chiamo, dato che non ricordo il numero civico. È da anni che non vado a trovarla a casa – in realtà vi ho dormito una notte, poco più di due anni fa – ma con lei e Martina ci siamo visti a fine maggio, a Marzamemi.
Ho vissuto a casa di Flo quasi un mese, suo ospite in un periodo particolarmente confuso della mia vita, fra giugno e luglio del 2006, l’estate del mondiale di calcio vinto dalla nazionale.
In quella casa, che è poi la stessa di adesso, credo di aver scritto le mie poesie migliori.
Suono il citofono, mi faccio dire a quale piano salire.
Ricordo che nel 2006 era ogni volta una fatica immane, per demerito della mia obesità grave di allora, riuscire a salire fino al suo appartamento.
Mi dice che posso prendere l’ascensore, ma mi avvisa che è molto lento, però ha dell’ottima musica classica di sottofondo.
Faccio il primo piano a piedi, poi decido di provare l’ascensore. Mentre sale scrivo al telefonino, la mia impressione è che abbia comunque impiegato poco tempo.
Flo mi sorride, e mi chiede che musica mi è capitata in ascensore. Tentenno, poi rispondo di non ricordare, cosa del tutto improbabile, dato che sono appena uscito da lì dentro.
La casa è nel mezzo di un trasloco. Con lei c’è una signora delle pulizie. Flo mi chiede se ho contanti con me e quanti. Le do cinquanta euro. La signora sembra soddisfatta, e ci saluta.
Flo mi chiede come è andata ieri. Cerco la mia risposta su Google. La fa ridere.
Penso a quanto sia stata presente in diversi momenti critici, e in modo per me quasi inaspettato.

Commentiamo velocemente una delle mie ultime imprese sentimentali in assonanza con il termine fallimentari, Come vuoi che sia, mi dice, dopotutto è una danzatrice, sono come le attrici, sono pazze e umorali.
Mi do una rinfrescata in bagno, mi cambio maglietta, andiamo a piedi al ristorante, dove ci raggiungerà Martina.
È una classica trattoria del centro, vecchio stampo, gestita da un anziano signore che sembra catanese nel midollo. Non ci chiedono nessun passaporto verde.
Appena entrati arriva Martina. Tentare di rincorrere la sua bellezza è come provare a riprendere un ladro fuggito con un motorino truccato. Ha una strafottenza apparente tutta sua, una serenità che le invidio, diversa da quella di Flo.
Se Flo ha comunque un fondo di inquietudine ancora dopotutto ben visibile, Martina sembra quasi a suo agio con la sua vita, come se avesse raggiunto una certa tranquillità.
È la seconda volta che ci vediamo dal vivo, anzi la terza. L’ho conosciuta a Catania ad una presentazione in libreria, poi non ci siamo sentiti per due anni, e solo a maggio scorso siamo riusciti ad abbracciarci.
Le piace fotografare piatti sperando un giorno di poter entrare gratis ai ristoranti: è la nostra, un’ossessione comune.

Entrambe ordinano delle pietanze a base di pesce, io una pasta alla norma (“Vanno bene le penne?”, mi chiede l’affabile proprietario) che ovviamente non riuscirò a terminare.
Dopo pranzo torniamo a casa di Flo: con Martina parliamo di alcune magliette, altre gliene mostro da un sito che riutilizza frasi fatte, ma la sua taglia è esaurita.
Arriviamo a parlare di alcuni miei versi di molti anni fa, di un poemetto dedicato a una ragazza milanese, di quanto fossi innamorato di lei.
Quando Flo torna, prendo il kindle e propongo di leggere a voce alta un monologo di Mattia Torre sull’ossessione degli italiani per il cibo. Entrambe sembrano divertite, Flo mi fa una fotografia da lontano, Martina mi fa dei video.
Finito il monologo, non si fa altro che parlare di cibo.
Dopo un po’ Martina deve andare, Flo mi accompagna alla stazione per tornare a P.

Passiamo verso il garage, in una via lì vicina. Di fronte c’è il negozio di una sarta, e un tossico sta cercando di venderle un paio di scarpe. Lei neppure lo fa entrare, dopo arriva una sua collaboratrice che lo scaccia in malo modo urlandogli di non farsi vedere mai più.
Uscendo dal garage, l’auto di Flo sembra enorme, un SUV nero che solo una settimana dopo scoprirò essere una banalissima Panda. Mi lascia alla stazione degli autobus, io corro a fare il biglietto.
Mi ritaglio del tempo per comprare un’ultima cipollina e un’arancina, in caso di improvviso calo di zuccheri.
Mentre salgo chiedo all’autista se effettua la fermata davanti alla Conad. Mi risponde in modo brusco che è ovvio, dato che è il capolinea.
All’ingresso di Noto troviamo una fila lunghissima di auto, rimaniamo bloccati per venti minuti.
Una volta sceso sono quasi le otto di sera, intorno un silenzio quasi irreale, dei colori inediti del cielo.

 

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