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DOVE NULLA è MAI COME APPARE
DOVE NULLA è MAI COME APPARE
Su “Atlante umano siciliano”, di Francesco Faraci, Emuse ed.
Non è stato facile tentare di iniziare a scrivere di questo lavoro di Francesco Faraci:
una delle poche certezze che si hanno sfogliandolo è quella di avere fra le mani un libro che sicuramente non è solo un libro di fotografia, ma anche un trattato di antropologia, un breve saggio di sociologia, una raccolta di poesia, un trattato di politica, una lunga fotografia che ritrae il paesaggio della più grande isola italiana.
Ma qual è il paesaggio che interessa all’autore palermitano?
Sicuramente quello dell’umanità, che è ricercata come nel lavoro di uno speleologo, attraverso lo sguardo dietro la camera, l’umanità che trasuda dalla selva di volti, in particolare quella degli e delle adolescenti, ragazzine e bambini, bambine e ragazzini che vengono ripresi spesso con sullo sfondo il Mediterraneo, o un paesaggio comunque deturpato dall’attività umana.
Sfogliando “Atlante umano siciliano”, presto ci si accorge che a Francesco Faraci l’otturatore non basta, il suo è un talento multiforme, la fotografia sembra solo uno dei suoi mezzi a disposizione, anche se sicuramente nel suo mazzo di carte la fotografia è il suo asso.
Il libro è infatti inframezzato da un breve poemetto che riesce a inserirsi e a conficcarsi fra le fotografie come una puntina su una parete di sughero: se nelle foto la cifra predominante è data dai corpi e dalla presenza in rilievo di uomini e donne, in fiore e non, nei versi a venire fuori sono proprio parti del corpo (occhi, braccia, nasi, denti, capelli, volti, gambe, lingua, urla), così “Canto della terra”, questo il titolo dato ai versi di Faraci, diventa un canto politico, di reietti e esiliati, rifiutati da ogni terra, una terra corporea, materica, di futuri tutti da affrontare di petto, e con poche certezze, dove “il tempo oggi è distratto” e in cui è mischiato “l’amore con la ferocia”.
Impossibile non tornare alla prima foto che compare nell’album dell’autore palermitano: un giovane uomo che indossa una pelliccia, un visone forse, sorridente, fra case che assomigliano molto a baracche, e degli uccelli, gabbiani probabilmente che si stagliano in volo dietro di lui.
Una fotografia che è sintesi perfetta dell’umano sentire che interessa Faraci, del respiro della provvisorietà tutta siciliana, ancorata al terreno e al mare, un mare che non è mai sfondo o contorno, che fa la voce grossa anche quando è calmo, e che si fa urlo, come fuggito dalla bocca sdentata di un uomo (un’altra foto scattata da Faraci).
Ma a tracciare questo percorso si potrebbe iniziare anche dalla foto finale, alla lapide di Sciascia recante la frase: “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, perché Sciascia è, quasi inevitabilmente, uno dei numi tutelari del lavoro di Faraci, lo Sciascia che fotografa il siciliano medio (immutato forse, malgrado i decenni), quello fotografato da Scianna mentre cammina dentro una chiesa, e soprattutto quello di Feste religiose in Sicilia, il libro corredato proprio dalle fotografie del genio di Ferdinando Scianna unito a quello di Leonardo Sciascia, e le santuzze, le processioni, i Cristi sbandati fanno capolino anche in una e più delle foto di Atlante umano siciliano.
Ma fra i rimandi quasi inevitabili che vengono in mente osservando le fotografie di Faraci ci sono due fotografi siciliani ormai da tempo noti in tutto il mondo, Ferdinando Scianna e Letizia Battaglia, che con i loro bianco e nero hanno raccontato come pochi le ombre di quest’isola, le bambine della Battaglia sono omaggiate in diversi ritratti: tre ragazzine che si prendono per mano mentre galleggiano sul mare, cinque ragazzini intorno a un’auto, quattro dietro a una tenda di fortuna, tre dentro una casa dissestata, e altri ancora.
Ma perché: Atlante umano siciliano?
Per citare un altro isolano, Gesualdo Bufalino: “dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore”, umano perché l’uomo è al centro del pensiero di Faraci, in tutte le sue declinazioni, ma prevalentemente in quelle più umili, e non si fa mistero di ribadire ancora una volta che questo è un lavoro profondamente politico, di denuncia sociale e civile, siciliano perché figlio di una scelta obbligata fra andare e restare, una periferia comunque e in ogni caso, pienamente comprensibile solo da chi è siciliano di nascita.
Faraci ha deciso di restare, con tutte le conseguenze che questa decisione trascina con sé, ma soprattutto con il suo carico di violento, tenero, talento.
di Giuseppe Rizza
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