DUE RETTE PARALLELE

a cura di  Giuseppe Rizza

Binari, di Giorgia Tribuiani, è un esperimento.

E un esperimento è un po’ tutta la collana Pennisole diretta da Dario Voltolini – un esperimento che possiamo definire senza indugio riuscito, se pensiamo anche alla precedente uscita, Tutte le camere d’albergo del mondo, di Gherardo Bortolotti.

Binari assomiglia a uno di quei liquidi densi che viene miscelato in un’ampolla e maneggiato con cura nei laboratori: l’edizione è infatti composta in una forma mutante: racconto che contiene in appendice un’intervista dell’autrice a uno psichiatra e psicoterapeuta, e una breve postfazione dello stesso Voltolini.

Per un caso assolutamente voluto, chi vi scrive si è interessato negli ultimi mesi alla scrittura di autori che recentemente hanno toccato il tema del suicidio, e il racconto della Tribuiani (autrice che, come sottolineato da Voltolini, si sta ritagliando uno spazio sempre più importante all’interno del cosiddetto panorama di giovani scrittori e scrittrici del nostro Paese) tratta la materia – una materia dalla natura altamente infiammabile – trasformandola come un’alchimista.

A chiunque sarà capitato di subire dei ritardi mentre è in viaggio in treno, e a molti probabilmente sarà successo altresì di avvertire voci di corridoio, mentre il ritardo comunicato dalle Ferrovie aumenta di decine di minuti, sulla natura del ritardo.

Qualcuno ha deciso di ammazzarsi gettandosi sotto un treno (seguono, di solito, commenti di taluni che poco sensibili, dimostrano scarsa empatia interessati solo ai propri interessi personali, e a cui la Tribuiani in verità non dà voce).

Ma cosa c’è dietro a quel gesto?

Il suicidio è probabilmente sempre inspiegabile, almeno agli occhi di chi ne riceve la notizia, essendo un atto privato che spesso diventa pubblico, ha nei pensieri di quest’ultimo una spasmodica ricerca di spiegazioni, di motivazioni.

Ma Tribuiani non cede al ricatto della pornografia del dolore, pur affrontando la consistenza e ciò che l’atto può provocare nelle vite (vite) di chi è coinvolto da quel gesto.

L’autrice di Guasti affronta in maniera originale il dolore della colpa, quella del suicidare le persone.
I macchinisti che conducono i treni infatti sono spesso succubi della volontà di altri – la decisione di uccidersi – e diventano meri esecutori di un suicidio – una persona che si sdraia sui binari o che sta immobile all’arrivo del convoglio – senza che nulla possano fare per evitare le conseguenze estreme del gesto.

Come raccontato da Tribuiani infatti, devono attenersi a un rigido protocollo – per cui possono anche rischiare di essere imputati qualora non dimostrino di averlo rispettato – che però non può evitare in alcun modo la morte di chi ha deciso di suicidarsi.

Il racconto infatti inizia così:

È opportuno che adesso si provi molta pena, per lui, o che almeno ci dispiaccia, perché da questo momento, e cioè il momento in cui l’occhio del macchinista riesce a captare sulla rotaia il corpo del suicida, quella distanza minima che permette alla vista di individuare il pericolo – così è stimato, così gli hanno detto – non è già più sufficiente ai freni per arrestare il treno: in altre parole, se come lui siete alla guida di un treno e riuscite a vedere una ragazza camminare sul binario, o correre, o sedersi, o magari raggiungere la linea gialla con l’intenzione cristallina di superarla, avete già perso ogni speranza di salvarla.

Lo sguardo dell’autrice si dedica pertanto sul peso delle azioni – inevitabili – dei macchinisti (fra questi viene citato il tedesco Kniest che ha avuto la sventura di suicidare diverse persone durante il suo lavoro) e sulle conseguenze – talvolta anche pesanti – che queste hanno nelle loro vite.

Indagando su ciò di cui possono soffrire, sindrome da stress post-traumatico (ciò che purtroppo hanno dovuto subire molti militari impegnati in guerra, e di cui si è iniziato a parlare dopo la sciagurata spedizione in Vietnam), l’autrice interroga il direttore del Centro di Salute Mentale di Giulianova per soffermarsi non solo dal punto di vista letterario su un tema così delicato, ma anche puramente medico e scientifico.

Il campo è così vasto, e apre alla possibilità di considerare molteplici sguardi, che il lavoro della Tribuiani può essere considerato, in campo narrativo, come un vero e proprio apripista sull’argomento, nonché un esempio di ibrido di scrittura dalle molteplici potenzialità.

Ciò che può apparire insolito è che in queste settimane è uscito in libreria un altro racconto di Giorgia Tribuiani, e pure in questa occasione per una casa editrice nata da poco e che pubblica solamente un singolo racconto di un autore (un esperimento ardito anche questo, soprattutto se vogliamo dare ancora peso alla celebre vulgata secondo la quale in Italia nessuno legge racconti e nessuno tantomeno li compra).

Superstar, questo il titolo di Tribuiani, è uno dei quattro racconti che la casa editrice Tetra – che, come da nome, ad ogni uscita, il quattro del mese pubblica quattro racconti distinti, ognuno in vendita a quattro euro – ha portato in libreria (le altre ultime tre uscite, vedono come autrice Valeria Viganò con I numeri sono buonissimi, Alfredo Palomba con La piccola gente, e nientemeno che lo scrittore di culto Antonio Moresco, con Il finimondo).

Nella loro ormai riconoscibile e curatissima veste grafica – formato molto simile ad un quadrato, copertina con collage d’artista – Tetra dà voce a una scrittura di Tribuiani decisamente diversa per stile, tono e voce, rispetto a quella di Binari.

In Superstar infatti la realtà indagata è quella, lontanissima da questo fine 2022 in Italia, del mondo del wrestling.

Amatissimi dai ragazzini alla fine degli anni ’80 e inizio anni ’90, caduti implacabilmente nell’oblio, qualche anno fa nuovamente tornati alla ribalta, i wrestler appaiono come la metafora perfetta delle cadute, delle risalite, e degli inattesi revival che la vita può riservare.

Una figura che è ben incarnata, è il caso di dirlo, da una maschera come quella di Mickey Rourke – popolarissimo quando imboccava di fragole alla panna una fulgidissima Kim Basinger in 9 settimane e mezzo, e in breve tempo scomparso dai radar dei sex symbol degli anni ’90, devastato dalla chirurgia plastica – protagonista di un film diretto da Darren Aronofsky nel 2008 e dal titolo appunto, The wrestler.

I protagonisti del racconto di Tribuiani sono due wrestler, Hawk e Joe, che cinque anni prima si sono sfidati in un incontro che tributò Hawk come la nuova stella del wrestling.

Quest’ultimo ha una sua liturgia ben riconoscibile anche in Italia: dai costumi al trucco, dalle colonne sonore alle coreografie, si fa carico di una narrazione da cui pare difficile fuggire.

Eppure l’autrice la fa propria e la deforma, utilizza il circo che ruota intorno a questa disciplina ampiamente codificata per controllarla, creando parallelamente una figura che fa da contraltare.

Giovanni è l’officina (come una bottega è quella in cui lavora la Tribuiani) che ci conduce dritta dritta al dietro le quinte della scrittura, alla costruzione della storia.

Questo Superstar è l’attraversamento della strada, l’asfalto e le suole, per arrivare dall’altra parte del marciapiede; se in Binari la materia è inevitabilmente nera e solidificata come catrame, in Superstar è fluo come un haribo di gelatina.