FEDELTÀ AL FALLIMENTO

Il talento di Gherardo Bortolotti sta nel tocco, nella variazione minima; se fosse un calciatore sarebbe un fantasista, se fosse un prestigiatore in pensione farebbe il gioco delle tre carte.

Tre come le opere raccolte in Low (sottotitolo, appunto, Una trilogia) uscito per TIC edizioni in unico e assai maneggevole volume che comprende tre libri usciti in passato per tre case editrici diverse, e che l’autore ha interamente rivisto.

Il primo tassello della trilogia (è notizia di solo qualche settimana fa) è stato votato da “Grandi lettori” e “Grandi lettrici” come una delle migliori opere di narrativa italiana degli ultimi vent’anni dalla rivista L’indiscreto (in 59° posizione), e da tempo fra l’altro non era più facilmente reperibile: Tecniche di basso livello uscito nel 2009 è indubbiamente il migliore delle tre opere di cui è composto Low, e traccia la scia agli altri due, attraverso variazioni minime: Senza Paragone, e Quando arrivarono gli alieni ne seguono infatti le impronte.

Ma se Bortolotti sa lavorare la materia, questa riesce ad assumere allo stesso tempo forme diverse, come se fosse mossa da un alchimista.

Una delle riflessioni, anche a seguito della comparsa di Tecniche di basso livello nel canone de L’indiscreto, a cui porta la lettura di Low sta proprio sulla natura della scrittura e sul genere a cui potrebbe appartenere (se ha ancora senso parlare di genere): Low, può essere considerato un romanzo?

Se sì, sicuramente lo è in modo contaminato, è un fiume alimentato da affluenti, il più importante è sicuramente la poesia; eppure Low potrebbe essere letto anche come un libro di aforismi, quasi un oracolo.

La trilogia di Bortolotti infatti potrebbe essere letta come si spilucca un acino d’uva, senza un ordine già prestabilito, tanto che la stessa segue una numerazione dei capitoli con numeri non in ordine crescente, ma apparentemente casuale (il primo volume inizia dal capitolo 155 per poi passare al 22, il secondo volume inizia dal capitolo 7 e prosegue col 33, il terzo dal capitolo 486 per proseguire col 787).

La lingua in cui è scritto fa suo un linguaggio post: post-industriale, post-televisivo, post-consumistico, post-postmodernista, al limite della satira, in cui l’autore ama scavalcare, oltrepassare i confini stabiliti; la sua è una narrazione che si serve di una poesia pulviscolare, da osservare in filigrana, una letteratura allo stadio terminale, a cui lasciarsi andare senza grandi tentativi di comprensione: come chi d’estate in mare si adagia su un materassino gonfiabile e si lascia trasportare dal moto delle onde.

Fra i temi ricorrenti presenti nel testo: costanti preoccupazioni nei confronti del futuro, commenti sui palinsesti televisivi, sui locali, sulle etichette delle merci, sulle mode, sulle programmazioni dei multisala e delle serate infrasettimanali, opinioni sull’immigrazione, sulla politica internazionale: il tutto mediato da uno stile sbadatamente corrosivo, decisamente un unicum, purtroppo, nella scena di solito facilmente catalogabile delle pubblicazioni editoriali del nostro Paese.

di Giuseppe Rizza