Ghirri tra scrittura e fotografia

Nei suoi scritti, Ghirri sembra ossessionato dal problema dell’”anestesia dello sguardo”, dall’eccessiva disponibilità di immagini nell’orizzonte culturale contemporaneo e dall’assuefazione che crea. Occorre “pulire lo sguardo”, rieducarlo. E Ghirri sembra cominciare da se stesso, con le sue fotografie che tendono all’astratto, coi suoi colori lievi e desaturati. Ridurre il tasso d’immagine nell’immagine sembra la sua preoccupazione dominante. La visione riparte da elementi minimi, poetizzati come dallo sguardo di un bambino. È, il suo, un vedere il mondo per la prima volta, e riscoprirlo. Non tutti i fotografi sono poeti. Ghirri è stato un grande poeta, il più grande, forse, della fotografia italiana. Ma, se provassimo a leggere i suoi scritti indipendentemente dalle fotografie, se facessimo finta di non conoscere la sua straordinaria opera e leggessimo i suoi testi come quelli di un saggista, cosa ne verrebbe fuori?

Innanzitutto, la frammentarietà. Artista di paesaggi impossibili, Ghirri è stato anche autore di scritti impossibili, che hanno perduto ogni carattere di compiutezza, che non aspirano più all’esaustività. La maggior parte dei testi raccolti in Niente di antico sotto il sole (edito da Quodlibet) non supera la pagina e mezza. Poi la totale rinuncia alle pretese di bellezza letteraria. La scrittura di Ghirri è imperfetta, sporca, non disdegna il lemma burocratico, preferisce l’efficacia comunicativa alla correttezza sintattica e grammaticale. Poi ancora un orizzonte culturale tipicamente postmoderno, dove Ariosto è citato accanto a Guccini e Bob Dylan è menzionato come poeta.

Ghirri è morto da trent’anni e il paesaggio che ha fotografato non esiste quasi più. I suoi scritti, però, sono attualissimi. Datata è solo la considerazione ancora positiva, o quantomeno neutra, del mondo della “comunicazione”, di cui oggi vediamo gli effetti dannosi. Ghirri sembra considerare la fotografia come parte del mondo della “comunicazione” più che come arte. Più volte dichiara il suo disinteresse per lo stile e afferma di non provare interesse per lo statuto della fotografia come arte. L’atto estetico della fotografia, dice, si esaurisce nel gesto dello scatto. Quanta arte, oggi, è fatta essenzialmente del gesto artistico? Penso alla vicinanza crescente tra il mondo della poesia e quello della performance: al peso che la performance sta assumendo nel lavoro di Maria Grazia Calandrone, a Tiziana Cera Rosco, che ha una doppia identità di poetessa e artista visiva.

In un’epoca in cui la cultura marxista contava ancora, Ghirri affermava che la fotografia è uno strumento per vedere e conoscere il mondo, non per trasformarlo. Fu anche criticato per questa sua mancanza di vocazione alla protesta, per questa gentilezza dello sguardo. Era più interessato a preservare le sopravvivenze del paesaggio che a denunciarne il degrado. Non attribuiva alla fotografia una funzione documentaria o testimoniale. Ma, se non è arte e non è documentario, allora che cos’è la fotografia? Personalmente, la considero soprattutto un esercizio di autodisciplina. Con la macchina fotografica posso fare quello che non è possibile nella scrittura: togliermi dalla scena e lasciare che le cose accadano. La scrittura non può fare a meno di una presenza autoriale: non è possibile, scrivendo, fare quello che John Cage ha fatto con la musica in 4’33’’, dove per quattro minuti e trentatré secondi un pianista resta seduto senza far nulla, e il pubblico ascolta il proprio silenzio nella sala. È impossibile, scrivendo, eludere la presenza di un Io cosciente. Invece, con la fotografia, si può lasciare che le cose parlino di se stesse e da se stesse. E in questo esercizio di autodisciplina la lezione di Ghirri mi è di grande aiuto.