Il Batusu

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Ancora sentiva rimbombare nelle orecchie il suo nome. Al Bestiascia. Con quello, tutti, lì d’intorno e anmù più in là, lo conoscevano da sempre, spesso maledivano. L’averlo urlato a squarciagola su quel tumulo di merda buascia lo impieniva di gran boria. Pure di averle prese, e tante, da quel bestione gramo, gli era certo di gran vanto. Perché, se tante ne prendi, sei certo in obbligo di darne almeno il doppio. Lo giuri a te stesso. Con diritto e sacrosanta convinzione. E così che di sicuro avrebbe fatto. Non appena maturata l’occasione. Seguitava a pensarci, ora, seduto al tavolaccio di cà sua. Legriosa la lampeda a petròli sfiatava dalla mensola ricolma.

“Se riva nò inscì scur a cà.” Gli fa il pà.
“L’è per culpa del Gioé, pà. La promessa si mantiene. Lo dice lui. E mi l’hoo ben spettaa. Ch’el doveva vegnì indrée.”

Il padre torce il ghigno. Il Gioé è dunque tornato! La notizia gli fa sempre un certo effetto. E’ suo cugino, il Gioé, su prim cusin. Da giovani ne han fatte di cotte e di crude. Sempr’insieme. Ma con senso di paesana gerarchia. Ché il Gioé vanta qualche anno in più. E ciò gli ha offerto sempre il sicuro bastone del comando. I più giovani, e tra questi anche il padre del Bestiaccia, gli andavan dietro, con rispetto, devozione, occhi aperti e bene in guardia. Il Gioé sceglieva il luogo. L’ora. L’esatto istante. Lui incitava all’inizio. Imponeva la fine. A farne le spese i vari pollai del circondario. Le cinghie di cuoio dei sellai. Gli orti e le granaglie sparsi per quanto intorno. Era il tempo della sana gaiezza lombarda, condita con tarlacche di miseria. Rubare, ciulare, sgraffignà, ancor prima che per fame era un segno di destrezza. Di valere qualche cosa più degli altri. Se c’avevi di bisogno, se eri svelto e forse ardito, svicc e viscur ‘me ‘n fuin, mostrar valore e scatto allegro era un atto si può dire doveroso: nei confronti di se stessi, degli amici, della razza a cui tenevi. Al bando le caragne e i piagnistei naturalmente. Da sempre, la sberla, lo sberleffo, il calcio in culo, rientravano nel gioco. Se si era beccati le si prendeva; se più forti si menava. Tutto qui. Con gran senso di baldanza paesana. Il Gioé, questo, ce lo aveva fisso in zucca. La su’ manera de vess. Una regola su tutto: se c’hai i denti mordi e strappa. La si andava senza dubbio a rispettare.

Il padre ben sapeva che la notte mica è fatta per dormire, né i danari per essere più di tanto conservati. Che esser liberi e contenti si può, si deve: ma solo ai più forti, ai più sfacciati, tutto questo è poi concesso.

“Il Gioé! c’ha la smania di partire quello lì. Sempr’in gir a bamblanà ‘me ‘n can saus. Viene. Va. Non lo tieni mica. E anche te. Te sei proprio come lui. L’hoo ben capii mì. Ma stai attento! Ocio nan a finii den’ in del bus! Che le strade, camminarle tutte intere, sono lunghe. E le gambe poi fan male.”

Frasi monche le sue. Forse stanche. Il padre lumava quel suo figlio a dir poco originale. Lo aveva chiamato Luigi. Luisin. Ma già dalla prima sassata per amor di sfregio contro un vetro scarognato, dal salto a capitombolo in un fosso, già da quei boccioli di bestemmie come giusto si conviene ai santi bambini, la madre stessa, col pieno consenso di quante matrone lei intorno, quel nome, glielo aveva sì cambiato. E così che del Luis neanche un cristo lo sa più. In compenso, tra urla, risse, fughe, era nato il Bestiaccia.

“Ti ta see no ‘l mè Luisin – Sempre ricordava la madre – Ta seet un Bestiascia! Bestiaccia d’un Bestiaccia!”

Caritatevoli benedizioni. A suon di sberle. Slepp e balordòn. A cui lui, quasi nel sangue intuisse la certezza di un destino, della rogna che s’andasse a rimediare, rispondeva con urti, spinte, sputi, smorfie. Da quel rospo malnato che era, da quell’impasto mal sortito di nervi, fango e ossa grame, procedeva pari passo una risata quale mai se ne erano intese. Una tromba stonata. Un rutto scordato. La più perfida scoreggia. Nulla gli poteva stare in pari. Lui rideva, ghignava, bauscia, sbruffone. Per ciapatt per ‘l cuu. E scalciava, sgagneva, menando a destra e a manca mulinava pressoché alla rinfusa, alla furiosa. Lo faceva per rabbia, per tenerezza. Riuscendo alla fine più che pesto e sanguinante. Ma lo stesso vittorioso. Poi se ne andava vagabondo. A quarciarsi tra le radici di una quercia campagnola. Se ne andava tra la merda delle volpi solitarie. A complottar con i cani dei cortili. A sventrare le luserte. E nessuno fino a sera l’aveva sott’occhio. Meglio così, si diceva. C’avesse preso il ghiribizzo di una stalla, di un pollaio, di un’ortaglia più matura, stai sicuro ch’eran guai. E grosse pene.

Lo sapeva bene il vecchio Pepp Cùdega, coi suoi pollastrin, liberati un giorno dalla gabbia e dispersi bell’apposta dal Bestiaccia là del fosso: in numero di trecento! O l’Attilio Mansuree, mezzo morto per l’affanno di correr dietro al toro, il toro Alberto, quello suo; mandato in furia dal nostro bislacco, che gli aveva pizzato una miccia di pece nera tra la coda e i dardanelli.

Ovvio che queste eran tutte amenità messe in atto in furibonda compagnia, Dalla ganga di piccoli briganti che puntavano sicuri, sfrontati, vincenti, sul Bestiaccia. Perché era un generoso, uno buono a far su tutto; e ciò quanto bastava per beccarsi di buon grado le colpe: quelle sue, degli altri tucc. Ovvio per poi farsene un vanto. In osteria, al fera, per le strade del paes.

“Cos’hai paura pà? – ride sguaiato già che addenta un tòcch de legura – Che vo a rubarci insieme al Gioé? Proccupes no pà. Son io che magari mostro a lui. Son grande che già basta. Gha foo vedè mì quell lì.”

A sentire ste parole strampalate, l’urlo di madre Elvira giunge allora fino al bue Ernesto che quieto sta loffiando nella stalla. E lo chiama per com’è, sto gran figlio della rogna. Bestiascia! Bestiaccia senza patria e senza dio. Il padre invece gli slunga un altro tòcch de carna. Perché certe bestie han bisogno di mangiare più di noi che siam cristiani. E lo fanno da innocenti e strabeate.

Sontuosa tempesta di stelle a struso sulla pianura sterminata e nostra di Lombardia. Le due più belle erano gli occhi del mite Bestiaccia. Tenero lupo. Intento a cavar furente dai gusci le lumache in riva al fossone. Nel mentre che aspettava il Gioé. Che davvero manteneva la promessa, rivando di filata in groppa a un destriero scalcagnato, con le ruote cigolanti e tutte smosse. Manubrio incerto, lui ubriaco. Anzi no: ciucch ‘me ‘n ratt.

“Uè batusu!” S’incendia gaio il Bestiaccia.
Il Gioé stravacca la spìcciola lì sull’erba. S’accende una cicca, spuga, scaracchia, si mette a sedere sulla sponda del fossone. Al Bestiaccia gli rotola tra i denti una bestemmia, subito smorzata da un gesto di rimprovero del Gioé.

“Va’ che bell! – Sussurra il randagio – Va’ che roba granda che l’è ‘l ciel!
Gli occhi del Gioé s’appendono alle stelle, larga la bocca stravuncia di vino, il volto sorpreso da rarissimo incanto. Gli è accanto il Bestiaccia. Mica vuol esser da meno. Anche lui cerca una stella. La più alta che ci sia. Poi un bel ghigno.

“Gioé! A gh’han resòn ciamat inscina! Ta see pròpi un Batusu. Sei un grande Batusu!”
Sì, quell’uomo miracolato dalla giostra delle stelle, lo era. Il Gioé era un Batusu. Un vagabondo. Un strusapée. Un camminante.

Strana razza quella sua. La genia dei camminanti. La migliore che mai su queste terre abbia realmente vissuto. E antica quanto l’erba sulla quale s’andava noi un tempo a camminare; e vivere più forte: la terra e i suoi sentieri, gli orizzonti di pianura interminati, le stagioni una ad una celebrate: sempre in cerca e dubbi mai. Tutto questo l’eva un Batusu. Era la strada. Lui, il batusu, traversando praa, cassin, rung e paes, ci camminava. La sera, il foco lo accendeva dove là moriva il sole, per poi, nel giorno rinnovato, ricongiungersi al cammino. Spulciava libertà tra i coltivi, ai margini dei boschi, tra i ruderi, le stalle, negli avanzi d’osterie. Camminava nel sole, tra le nebbie nostre e care. Al calore di una fiamma attendeva il frangersi delle nevi. Le piogge ne quietavano la sete. E non si dava tempo che non fosse degli alterni umori del cielo, il frullo delle stagioni: in cui non scorgeva alcun confine, ma solo seguitava nel destino di chi ha scernito di non avere mai un padròn, mai un mestee, né infine una vita recintata dal buon senso quotidiano. Quel che si trovava lungo la strada, svelto, andava rampaa su, raccolto, fatto, lavori pressoché alla giornata. Nelle cascine a pascolar le biade, scavar un fosso, Sfoltir le piante, tajà i gabb; all’occorrenza offrendo mani e spalle ai sacchi di gera e litta strappaa alle sponde di un torrente, O alle bielle di sabbia e calcina scaregaa dai barcée giunti in darsena a Milano: Quanto serviva a imbertar due franchi due. Per poi subito dopo andarsene lontano. Chissà. Ancora a camminare. Anmù fiadà.

Questo gli bastava alla vita. Quella di un Batusu. Una vita a parte. Che non marcava pretese di alcun sorta. Né imponeva giudizi. Né serbava danari. Che tutto accettava. La gioia così il patire gli eran di certo fratelli. Il vento lo rampava per mano. In quel mondo contadino intessuto di miserie e di fatiche, forti passioni e più sincere, la vecchia schiatta dei Batusu godeva di un rispetto pari a un folle profeta dei tempi andati. Eren matt. Eran stregoni. Di un coraggio proverbiale. Conoscevano i sentieri delle quaglie. Ne usmavano le tracce cagaiole. Salutavan le poiane. Molti preti, i più studiati, nel vederli recitavano il rosario. Se il Batusu rubava, certo lo faceva con destrezza; e per pietà di tre galline grame. Che mal sopportava veder rinchiuse e sottomesse. Una buona gallina messa sotto i denti, procurava forza e scatto ai polpacci camminanti. Il suo brodo era rosolio. Se invece il Batusu si lasciava andare al vino, al bòn russ, nulla v’era di meglio per tanti intorno che scoltà le sue storie granché bizzarre, intramate di gesta invero eccezionali. Animose imprese, sfide, assalti, miracoli e vittorie. Eran favole di femmine furenti. De biss e de funsgiatt. Di furbi e poveretti. Di corna e di stracorna. Animali parlanti. Geniali giocolieri. Chitarre innamorate. Proverbiali saltimbanchi. Bastoni tra i più duri tra le gambe. Mascher e pigòtt. Eran racconti di ardore, fegataccio e mano svelta. Salti schiaffi botti e sputi.

Pur se giramondo per pianure e per colline, e per ciò senza mai casa, tetto, mestiere e documento, nessuno avrebbe mai dato dello zingaro a uno della razza dei Batusu. Perché lui era di qua. Cresciuto in qualche tanfo di cortile paesano. In ringhiera o giù in cascina. Non era quel che si dice on forestée. Era un lombardo. Ch’ancora serbava nel tratto ascendenze lacustri alpine. Spesso di rosso pelo. Postero dei vagabondi figuranti sulle ìnsubri pale d’altare, nei lignei presepi dall’Agogna all’Alpi, o risorto dagli affreschi popolari che pittori sconosciuti avevan qua e là spruzzato sui muri sfatti di cascina. Al pari loro, la sua lingua era affatto scritta, né irrigidita tra gabbie d’inchiostro; bensì corsa, gioita, vissuta. Orchestrata su spartiti gutturali, melodiosa d’accenti tronchi e bislacchi ottonari. Saltellante e ardita. Era il nostro dialetto antico. La lengua di sciatt. Lui, il Batusu, ne era assoluto maestro di grammatica e poetico lirismo. Ne coglieva le tenui e bislacche sfumature, il timbro, il tono, il vago e le impressioni, i fondi tesori emotivi. Cantilene e pie filastrocche sulle eterne strade dei randagi…

“Grama vitta d’on usell
    che l’è semper pussée bell,
       el va innanz per la su’ stràa
          pe’ brancà la libertà.
             Dulza l’uga e ‘l passarin
                che ‘l gha sta pussée visin,
                   se ta voeuret viv content
                      fagh ‘l fil e stagh ben dent’!”

La voce del Gioé spande un tono di gaiezza. E poiché la notte è scura il suo timbro brilla e avvampa. Il Bestiaccia ne è incantato. Piano china la tempia sulla spalla del Batusu.

“Gioé. Voglio venir via con te. Portom via de chì.”
“E dov’è t’oeur andà, Bestiascia?”
“A camminare. Come fai te. A Milano voglio andare. Che l’è ‘na città granda. E nessuno poi ti dice cos’è che devi fare.”
“Ma i padroni ci voglion sì! Son necessari vacca l’ostia! – sbuffa il Gioé – E’ per rubarci le galline e i bei salami che ci vogliono i padroni! Metti che son tutti poori crist: poi uno, me lo dici come fa a impienirsi le busecche? A chi ruba? Gh’è minga pùu de gust.”
“Io un gusto adesso ce l’avrei!” Schiocca il Bestiaccia. 

Che d’un lampo racconta al suo Gioé delle botte prese su per mano del bestione; e della voglia di fargliela pagare, di tornare a far del male. Ma simili pensieri al Batusu piaccion mica.

“Lui ti ha picchiato, – storce il ghigno il Gioé – tu gli hai piantato un ciòd in di garòn. Botta e risposta. E bona lì. Sii pari. Ognuno, chi le ha prese e chi le ha date, ha fatto il suo dovere. Damm a tra: l’è finii chì.”

Tenta, il Bestiaccia, di spiegargli la rava e la fava. Il perché di quei pugni sull’ ossa sue tenerelle. Ma lui non vuol saperne. Scansa ogni fatica. Lui è un Batusu. Tutto accade, poi finisce, ora e sempre. E starci a ragionare serve mica. Perché l’uomo è così: tale e quale poi rimane. Ma forti e duri si può certo diventare. Per noi stessi, per estrema dignità; per il più sacrosanto dei diritti: la libertà.

“Se vuoi dimostrare quel che vali per debòn – ghigna il Gioé – fa’ allora quel che vuoi. Quel che vuoi lo devi fare. Se riesci, se sei buono a farla franca, vuol dire che sei in gamba. Ma quello lì che ti ha pestato, lui, così stronzo, ci è nato. L’è minga on tu nemis. Ora cresce e dopo muore. C’ha nel sangue la natura che è la sua. E quella lì la cambia mica. Lùu l’è inscina. Te sei mica buono a saltar fossi? Allora salta quel che t’ha pestato. Saltalo. Alla lunga. E va drizz per la tu’ straa che nissun ‘l poeu brancatt. Vai avanti e mai che guardi indietro. Se riesci a far così, va là, sei uno bravo.”

Un Batusu ha l’orgoglio dei migliori. Degli arditi con la lama stretta ai denti. La vita la si sfanga, tutto qui, senza drammi, parrocchiette cristianucce, caragnad e piagnistei. Con destrezza per l’appunto. Schiena dritta passo lungo e ben disteso. E sta l’oeucc!

[continua…]