Per Il mese dopo l’ultimo di Marco Ercolani

a cura di Giorgio Galli

Nessuna biografia ha l’happy end. Tutte finiscono col protagonista che muore. Ma dipende da come si muore. Quella di Bruno Schulz fu una morte assurda: un nazista, in una città occupata, spara al servo ebreo di un collega. Il collega ricambia lo sgarbo e toglie la vita al servo ebreo del nazista. “Tu uccidi il mio ebreo, io uccido il tuo”, lo sentono dire.

L’ebreo era Bruno Schulz, lo scrittore per eccellenza del primo Novecento polacco, e la città occupata era Drohobyč, dove Schulz era nato e vissuto. Gli avevano proposto più volte di espatriare – lui aveva sempre titubato per via di quel legame morboso che aveva con le origini, col mondo dell’infanzia, con sua madre e con l’assenza del padre: un mondo mitico racchiuso entro i confini di Drohobyč. Alla fine s’era risolto a scappare, aveva ottenuto anche un passaporto falso, ma zac!, la pallottola sparata da un ufficiale nazista per vendetta verso un altro ufficiale nazista mise fine ai suoi sogni, alla sua giovane vita e a un capitolo immenso della storia della letteratura – un capitolo che poteva ancora dare frutti.

Alla breve vicenda di Schulz, Ercolani dedica il suo romanzo Il mese dopo l’ultimo (Graphos, Genova, 1999). Ma bisogna stare attenti a parlar di romanzo, perché Ercolani è maestro di una scrittura apocrifa che dichiara apertamente la propria impossibilità. In mano a lui l’apocrifo non è più un ritrovato tecnico della letteratura fantastica, e nemmeno la creazione di un oggetto falso ma plausibile. E’ piuttosto un atto di riparazione, un tentativo di inseguire quei fili della storia che avrebbero portato in una direzione più giusta se fossero stati dipanati -e lui prova a dipanarli ma senza mai farci dimenticare la storia vera, la storia che non è giusta.

La vicenda di Schulz non si è conclusa col colpo di proiettile che gli ha tolto la vita. C’è anche una lunga coda che riguarda i suoi manoscritti perduti, e in particolare il manoscritto di un romanzo al quale stava lavorando da anni e che doveva intitolarsi Il Messia. Ercolani riscrive a modo suo non solo il romanzo, ma le lettere in cui lo annunciava, i taccuini di lavoro in cui si tormentava sui problemi estetici e compositivi dell’opera. Ai capitoli del romanzo che si accumulano -e che delineano un non-romanzo dall’atmosfera metafisica- Ercolani aggiunge tutto il materiale di laboratorio, il backstage della composizione. E così crea un romanzo-laboratorio intorno all’ultimo romanzo di Schulz -che sappiamo perduto. E noi restiamo affascinati dal tentativo di ridare una seconda possibile vita, se non al povero Schulz, almeno alla sua opera perduta. E’ un tentativo che avviene per via empatica, per corrispondenza istintiva. Poco resta, nel Mese dopo l’ultimo, della personalità storica di Schulz, e meno ancora resta traccia dell’immaginoso stile letterario schulziano. Ercolani rintraccia piuttosto i campi magnetici della psicologia e del pensiero artistico di Schulz, ne ricostruisce le linee di forza e le mette ad agire in un campo che non è più di Schulz, ma è suo. Dà spazio dunque a frammenti dei propri taccuini nei taccuini immaginari di Schulz; si interroga su problemi del suo narrare attraverso la voce di Schulz. Eppure, rileggendo il vero Schulz -soprattutto quello delle prose critiche- scopriamo che Ercolani non ci era andato poi così lontano. Semplicemente, ha preferito esser fedele alla realtà poetica delle cose piuttosto che a quella storica. Il suo Schulz è lo Schulz più vivo possibile perché Ercolani lo presenta come cosa radicalmente sua, fino a confondere la voce di lui con la propria.

Avete presente quando si perde una persona cara e, dopo un po’, se ne dimentica la voce? Nel ricordo, facciamo parlare quella persona con la nostra stessa voce. Vi è mai successo? A me sì, quando ho perso mio padre. Ercolani fa lo stesso con Schulz. Gli ruba la voce -e lo fa per amore.

Schulz credeva a una specie di scrittura infinita, che germinava continuamente da se stessa, che era sempre in elaborazione, protesa verso un Libro che non sarebbe esistito mai, e che pure era norma e impulso dei libri empirici. La scrittura di Ercolani mette in scena l’impossibilità stessa del Libro. E’ una scrittura la cui essenza è nel laboratorio e non nella sua conclusione in opera. La conclusione in opera è quasi un accidente, un caso fortuito che ha permesso di mettere una copertina e un titolo a qualcosa che altrimenti sarebbe continuato per sempre. Così, a distanza di oltre cinquant’anni, due voci non pacificate si sovrappongono -per poi potere scomparire insieme…