Il riposo ebreo dei morti

Da bambino, nel paese del trevigiano dove vivevo, mi piaceva guardare i muratori mentre lavoravano. E ricordo l’impressione dolorosa, terribile, che provai vedendo il corpo abbandonato al suolo di un operaio, immobile: solo, di quando in quando, un leggerissimo fremito dei piedi: dormiva per un breve riposo, ma io ebbi la sensazione della morte, o dell’agonia: il riposo era per me, allora, un incubo. Mentre il cadavere caldo di Mestre, scomposto sull’asfalto, osceno come un corpo nell’amore, fu per me, molti anni or sono, invidiabile. Aperto e turpe come nell’amore: cinque anni dopo Jean Genet avrebbe così descritto i cadaveri che bloccavano le strade di Sabra e Chatila. E nell’occasione della strage, il primo ministro d’Israele, Menahem Begin, formulò, davanti alla Knesset, la frase dell’equivoco essenziale: “Dei non-ebrei hanno massacrato dei non-ebrei. E questo, in cosa ci riguarda?”. Perché solo gli ebrei non lo sono, ebrei, mentre posso parafrasare Marina Cvetaeva e dire, con un spaventoso riposo sulle labbra, che tutti gli uomini sono ebrei. Ma specialmente gli uomini morti.