IL SEGNO MENO – Appunti cinematografici su due sottrazioni

Gli ultimi due film che ho avuto il piacere (e già su questa parola ci sarebbe da discutere per un po’) di vedere al cinema sono due film diversissimi fra loro, sia per tematiche che per ambientazione (uno è di un regista malese, l’altro di una regista francese), ma in realtà anche simili.

Sono simili nella tecnica e nello stile della messinscena: entrambi agiscono per sottrazione.

In Days (in concorso al Festival di Berlino nel 2020, e coraggiosamente uscito a novembre in Italia), di Tsai Ming Liang, il regista malese si affida alla camera fissa, a vere e proprie rappresentazioni della realtà attraverso inquadrature che si fanno quadri e fotografie, e in cui non c’è spazio per la parola.

Quasi completamente privo di dialoghi (l’unico dialogo che io ricordi sono delle brevi parole pronunciate da due persone che stanno praticando l’agopuntura al protagonista, e quindi del tutto irrilevanti ai fini del racconto), Days è il racconto di due solitudini, quella dell’attore Lee Kang-sheng, da sempre feticcio del regista di Il gusto dell’anguria (l’inarrivabile capolavoro di Tsai Ming Liang) di cui vengono raccontate le reali tappe dei dolori fisici di cui è vittima, e quella del giovane Anong Houngheuangsy.

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Il primo viene ripreso soprattutto nelle sue traversie quotidiane legate al tentativo di eliminare il dolore al collo e alla schiena, il secondo durante banalissime (non per Tsai Ming Liang) azioni come lavare e cucinare verdura, o semplicemente mangiarla.

È quando si incontrano questi due corpi solitari che viene fuori una delle scene più belle del cinema degli ultimi anni: il secondo che pratica un massaggio al primo, per lenirgli il dolore, e che termina con un atto sessuale di una delicatezza sorprendente.

Ma se nella scena seguente un abbraccio e un fugace spuntino fra i due segna la fine del loro incontro, il film riesce comunque a raggiungere altri due climax: in una scena Lee Kang-Sheng piange sommessamente mentre è a letto, da solo (come non ricordare il finale struggente di un altro capolavoro di Tsai Ming Liang: Vive l’amour, pellicola che terminava – altra inquadratura fissa – con la protagonista in un pianto a dirotto di diversi minuti in un parco pubblico), e soprattutto nella scena in cui Anong Houngheuangsy suona, seduto su una panca, sopraffatto dai rumori caotici della città, un piccolo carillon che intona, struggente, il tema di Le luci della ribalta, di Charlie Chaplin.

 

In L’ÉvénementLa scelta di Anne, il film vincitore dell’ultimo Leone d’oro al Festival di Venezia, è presente la stessa cura dell’essenziale.

La regia di Audrey Diwan è icastica, mira all’osso, alla forza del racconto – la storia reale delle dolorose traversie di una giovane che negli anni ’60 in Francia rischia la propria vita e l’incarcerazione, solo per aver preso la decisione di abortire – e può contare sul talento dell’attrice protagonista Anamaria Vartolomei e su quello della scrittrice Annie Ernaux dal cui libro omonimo (edito in Italia da L’Orma) è tratta la sceneggiatura.

Non c’è infatti un filo di grasso in questa storia che pur nel suo racconto crudo di una vicenda che sembra lontana anni luce riesce a inchiodare chi guarda il film, senza l’uso di alcun effetto speciale e senza ricercare consensi da parte dello spettatore.

La regista francese agisce per sottrazione, e non tocca mai il patetico, evitando qualsiasi forma di pornografia del dolore, con un tocco sempre delicato che malgrado un apparente distacco, riesce invece a trasmettere empatia nei confronti della protagonista.

Non si può uscire indenni dalla visione di un film che racconta come il diritto alla rinuncia di una maternità sia stato acquistato solo qualche decennio fa.

Nelle due parole pronunciate sul finale, aborto spontaneo, c’è tutta la sintesi perfetta di una cronaca emotiva raggiunta con poco, facendo uso degli stessi sentimenti che la regista ha voluto narrare.

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Non possiamo infine non citare il coraggio, soprattutto nel caso del film di Tsai Ming Liang, da parte dei distributori italiani, di portare nelle sale cinematografiche due opere come queste, in un momento di grande sofferenza da parte del cinema tutto e che ha provocato un ulteriore imbarbarimento (ne usciremo migliori, si sosteneva) dei gusti dello spettatore italiano che sembra preferire alle sale i divani di casa e l’offerta streaming di piattaforme sempre più mainstream.

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Giuseppe Rizza