Il tremante e l’ebreo

Io tremo davanti alla pagina. Phóbos kai trómos. Il timore di ciò che già vi è scritto. Il tremore della cancellature, dello sbiancamento della pagina, della variazione che apre spazio alla sfigurazione, che produce l’effetto dell’origine. Scrivo un poema del tremore, un solo poema del timore, sono un uomo che teme, sono un corpo del tremore che è la sola anima in cerca del Padrone.

Ma la pagina non è un uomo. La pagina ride dell’uomo come fosse un insetto. Ho nausea per la pagina, per lo stile. Per quel linguaggio verso cui nutro timore e produco tremore ho al tempo stesso disprezzo come per una catena. Il linguaggio che non mi appartiene, ma a cui appartengo. La pioggia acida di significati che mi ferisce la vita. Sono un Narciso il cui specchio è ingombro d’immagini, ma è vuoto della sua. Pausania, nella Descrizione della Grecia, a proposito del mito di Narciso afferma che è completamente assurdo che un uomo, giunto all’età d’innamorarsi, non distingua un uomo dall’immagine di un uomo”. Ma l’uomo è soltanto un’immagine, e quest’immagine non gli appartiene. Tutti gli uomini sono ebrei se, come scriveva Celan, l’ebreo è colui che non possiede nulla che gli appartenga veramente, che non sia dato a credito, prestato, e non sia da restituire.

Il volto è in prestito, lo sguardo è a credito, e il discorso è il discorso dell’altro, il vedere è il vedere dell’altro. L’incasso del credito, l’usura, sono originariamente attivi. Quod cupio mecum est: inopem me copia fecit. Ciò che bramo è in me, la ricchezza mi ha reso indigente, scriveva Ovidio di Narciso.

Io sono un uomo che trema, io sono un uomo, un ebreo.