Veranio

a cura di Lorenzo Gafforini

 

In un mondo in cui il petrolio è finito ed è stato sostituito dal veranio,
amicizia, amore e mistero si intrecciano nel nuovo romanzo di Giovanni Peli.

 

Come nel tuo precedente Fermate la produzione!, Veranio vede ancora una volta la natura colta in una mutazione inquietante. La civiltà continua a mantenere una propria dignità (se così si può chiamare) civilizzata, eppure è nell’arcaico e nel folklore che si dipana il libro. Centro dell’universo di Veranio è la montagna, foriera di suggestioni oniriche e primitive. Vi è un fascino irresistibile per l’ignoto che si struttura e nasconde fra case arroccate, giacimenti abbandonati e boschi impervi.

In effetti la cosiddetta civiltà è sotto accusa in tutto il libro. Anche nell’ambientazione post apocalittica in cui la storia si svolge, la dignità è scambiata con la capacità di possedere, di arraffare e di sottomettere ai propri scopi gli altri esseri umani e la natura. Il motore del pensiero umano è l’avidità. C’è una visione distorta della dignità. I personaggi sono costretti a vivere “nell’arcaico e nel folklore”, ma in realtà il folklore non esiste più, le tradizioni sono state cancellate, regna l’oblio, c’è anche un importante ritorno dell’analfabetismo, un’analfabetizzazione, per dirla col mitico Claudio Lolli. Il grande libro della Natura però è lì da leggere, e la gente ricomincia da capo, con le proprie vite estroflesse, guidate dall’avidità, tese alla sopravvivenza, ovvero alla creazione, la conservazione, l’accumulo e compravendita del veranio. Il veranio è un nuovo ritrovato naturale ed è misterioso. Agli uomini certo non mancano il coraggio e la curiosità, solo che questi aneliti sono indirizzati a una sola e ossessionante materia. La Natura prosegue il suo corso, svolge con i suoi ritmi il suo indecifrabile programma di morte e vita, di costruzione e distruzione, modificandosi continuamente, e dando messaggi frastornanti. Il perturbante è una costante del libro, l’arcaico, come tu lo chiami, si colloca nel futuro; il bosco è ciò di più naturale e familiare per l’uomo, eppure nasconde mostri e nasconde il mistero del veranio; le case di pietra, tipiche delle zone montane di cui parlo, emanano qui un’atmosfera indefinibile, in equilibrio fra la sanità e la malattia, la serenità e la follia. Assistiamo a un ritorno alle origini, o così pare a noi lettori; in realtà le persone di cui parlo non conoscono più le proprie origini: la civiltà ipertecnologica è crollata, la Rete, che era l’unica possibilità di reperimento delle informazioni, anche storiche, è collassata: ora non c’è più. Individui catapultati senza preparazione in un mondo preindustriale, soprattutto quella parte di popolazione che vive lontano dalle grandi città. Il libro, in questo frangente, è uno strumento usato da pochissime persone, per lo più per una evasione nostalgica. Gli studiosi sono rarissimi e non praticando un’attività produttiva: sono negletti, visti come parassiti. Le biblioteche più che mai sparute. Le persone, in gran parte poco o nulla acculturate, vivono alla giornata.

Un ritorno alle origini, perciò. Una consapevolezza di assistere a una natura labile e devastante, volubile e granitica. Inoltre vi è un ritorno all’uomo, nella sua accezione più pura, senza però che si sfoci nell’individualismo. E questo passaggio in Veranio si compone anche tramite il trauma, il dolore. Per citare Byung-Chul Han: “Senza dolore è impossible apprezzare il mondo sulla base di differenziazioni. Il mondo senza dolore è un inferno dell’Uguale in cui imperversa l’indifferenza che fa scomparire l’incomparabile.”

Sicuramente il protagonista – che pure arranca sotto vari aspetti, per esempio è preda di incubi e visioni che a volte inficiano il suo “saper fare” – è tra coloro che sanno ancora leggere, ha studiato e continua a farlo, ha più consapevolezza di ciò che sta succedendo e può mettere in relazione il presente con il passato. Rifiuta l’individualismo proprio perché conosce la solitudine e la dolorosa difficoltà dell’incontro con l’Altro. In fondo, crede ancora nella solidarietà. E quando la motivazione è fortissima, come nell’attrazione per Limpida, attraversa il dolore e la complessità, si butta nella conoscenza dell’Altro, acquisisce maggiore capacità di analisi e maggiore coraggio. Il mondo post apocalittico è il mondo del contrasto e del dolore, lì è possibile ridefinire l’umano. Oggi invece i contrasti devono essere sempre – superficialmente – appianati, e la ruvidezza levigata. Trovo che i libri di Han siano illuminanti, a questo riguardo.

In Veranio vi è poi una parsimonia, un’economicità della parola. La forma è quella del romanzo sì, ma i capitoli si strutturano da pochi paragrafi a un massimo di una manciata di pagine. La struttura è frammentaria, legata però da una storia solida e coerente. Come nei sogni, tra delirio e profezia, che il protagonista compie, anche nel romanzo si denota questo muoversi con certa agilità fra sogno e realtà. A volte il romanzo si sospende e la montagna sembra quasi dissolversi dando spazio a luoghi indefiniti come i deserti di Dune. La natura compie un ruolo quasi medianico.

Esatto! C’è un collegamento profondissimo tra la natura e la mente del protagonista, non ci sono soluzioni ai problemi, ci sono segnali irrelati, continui. Il paesaggio della montagna, paesaggio edenico e al tempo stesso infernale, fa parte dell’immaginario del protagonista. La mente del protagonista è una tabula rasa e gran parte della Natura è sconosciuta: perciò i sogni sono un’esperienza conoscitiva, i mostri sognati diventano reali, Limpida nel sogno è un mostro, nella realtà è una donna. Il protagonista però sembra averla conosciuta meglio nello stato onirico. Il loro incontro è magico: sentono di vivere nella realtà, ma sanno di essersi già conosciuti in sogno. Nel frattempo la Natura continua a dare segnali, nella realtà e nei sogni.

Il panorama, seppur non ancora così desolante, ricorda, fra gli altri capolavori, La strada di McCarthy. Tuttavia, quello che mi interessa non sono tanto le suggestioni che un libro del genere potrebbe averti lasciato, ma il rapporto fra le generazioni. McCarthy analizza in maniera scarna, cruda, ma talmente incisiva, il rapporto padre-figlio. Anche in Veranio il protagonista sviluppa un rapporto speciale con un bambino. E questo legame diviene essenziale. Come lo hai concepito?

Da quando sono padre ho a lungo riflettuto su come parlare di quest’esperienza a livello letterario, al di là di certi abusi sentimentali che, credo, mi hanno portato a scrivere vari versi, in poesie e canzoni. Mi interessava capire in che contesto calare questo rapporto viscerale, questa sorta di continua overdose di vitalità e speranza, all’interno della ruvida complessità di cui è costituita una vita vissuta pienamente, che guardi in faccia la realtà dell’agire, del rapportarsi con gli altri. La strada è sicuramente un inarrivabile modello, ma anche le apparizioni dei bambini in alcuni romanzi di Martin Amis, fugaci ma molto significative, mi hanno impresso qualcosa dentro, e mi hanno fatto capire che dovevo provare a parlare della paternità. Trasferito nel mio libro, però, questo rapporto ha altri connotati. Checco è più un personaggio fiabesco, viene direttamente da un’altra storia, se mi concedi la metafora. Innanzitutto non ha genitori, come i protagonisti di quasi tutti i libri per bambini. Il protagonista infatti svolge la funzione che nei libri per bambini svolgono vari nonni bizzarri, zii o amici adulti: si prende cura di lui, perché lui, nonostante la sua incredibile autonomia, deve crescere, formarsi. Il protagonista dapprima ha con Checco un rapporto professionale, gli legge storie in biblioteca; poi il legame si fa più stretto e infine diventa affettuoso. Sembra, peraltro, che il protagonista abbia bisogno di volere bene a qualcuno, forse perché non vive serenamente nel mondo brutale e pericoloso che lo circonda. Inoltre il protagonista, che ha pure un lato meschino, sa che l’amore per un bambino può rendere le donne (e lui ne ha conquistata una) particolarmente utili… Sono molti i motivi dunque che fanno sì che si crei, in quella isolata biblioteca, una sorta di strana famigliola. Ma torniamo a Checco. Forse è l’unico personaggio ad essere un vero e proprio eroe, è coraggioso, di quel coraggio incosciente che fa compiere imprese che sembrano impossibili, unicamente per raggiungere il suo scopo: trovare la mamma. Cosa che ahimè non gli riuscirà. Ma nel dolore si trova immediatamente attorniato da affetto. In questo libro la disperazione non esiste.

Quando si legge il tuo libro si ha la sensazione che Veranio non voglia essere solo una storia eccezionale, ma che celi comunque un messaggio che va oltre la trama. Mi viene in mente il saggio di Carla Benedetti La letteratura ci salverà dall’estinzione. Siamo costretti a cambiare il nostro modo di pensare e, soprattutto, di scrivere per sopravvivere alla nostra sempre più imminente estinzione. Non sorprende che in questo senso il protagonista sia un bibliotecario.

È un saggio che ho molto apprezzato. Penso che oggi la letteratura debba insistere sui temi del nostro tempo, uno dei quali è quel nodo complesso e multidisciplinare che è il cambiamento climatico. Avere cura della natura però significa anche avere cura di noi. Dobbiamo conquistare la libertà di non sopraffare gli altri. Se immaginare la fine del capitalismo sembra impossibile è perché forse abbiamo perso la capacità di immaginare. Immaginando storie possiamo prepararci alla catastrofe e affrontare anche il dopo. La catastrofe è già arrivata, è sempre qui. Quando ci alziamo, quando andiamo a lavorare, ogni volta che parliamo con qualcuno. I tempi del cinismo devono finire. Penso che in letteratura si debba opporsi al conformismo, rischiando molto, rischiando di non essere capiti o apprezzati, bisogna rischiare tutto. La letteratura secondo me deve essere impura, incontrarsi con altre discipline e non accontentarsi di metaletteratura, di ricerca stilistica, o di analizzare i soliti sentimenti. Nutrita così, nutrita con l’interdisciplinarietà e con una ricerca spirituale, la letteratura produrrà qualcosa di nuovo, probabilmente non-poesie, non-romanzi, non-testi, scrivendo e leggendo i quali saremo forse più capaci di interpretare il presente. E guarderemo serenamente da fuori la grande kermesse della letteratura dei premi letterari e dei social network, lontano dal rumore di fondo. Bisogna attraversare il silenzio e la solitudine. Anche per questo ho descritto un protagonista che lotta con la sua solitudine, che trova altre solitudini per sopravvivere e si apre totalmente ad esse.

Un aspetto inusuale, ma coerente nel corso della narrazione in Veranio, è la sessualità. In un mondo pre-apocalittico, a un passo dal baratro, c’è ancora una volta – come in tuoi precedenti lavori – una riscoperta obbligata della primordialità. Per riprendere Thoreau, vi è un naturale istinto allo stato selvatico. E l’uomo e la donna ne sono permeati. La nudità, il rapporto corpo-natura, la riscoperta del sé come flusso delle cose diventa un concetto fondante. Si percepisce la sensualità attrattiva proprio nella sua eccezionale genuinità.

Sì, nei miei lavori narrativi la sessualità è fondamentale: ne Il candore (2016) che è un romanzo realistico, il sesso è una sorta di peccato mortale, viene vissuto come mezzo di autoaffermazione o rivalsa; nella trilogia distopica invece è innanzitutto vitalismo: in Sulla soglia (2020), l’uomo che per legge deve sottoporsi all’eutanasia, vive unicamente per il sesso, mercenario o meno che sia, è un satiro incallito; in Fermate la produzione! (2022) l’arboricolo senza nome viene irretito da una donna del mare, una nemica: qui il sesso è separato dall’amore, è brutale e viene vissuto come una missione guerresca inevitabile; in Veranio (2023) invece il sesso è l’apoteosi del sentimento, nasce dalla conoscenza mentale e onirica e la corporeità è però anche legata alla produzione del veranio: come se il sesso eterosessuale, anche il più disinteressato e passionale, sia volto alla produzione del veranio, invece che alla procreazione. È come se i personaggi ricerchino l’amore e il piacere fine a se stesso ma in realtà finiscono per fare parte di un meccanismo di autosfruttamento.

 

Segue un estratto di Veranio di Giovanni Peli:

“Vedevo una ragazza in riva al lago, sembrava stesse tranquillamente guardando qualcosa nell’acqua, la vedevo nei sogni, frequentemente. A volte ne sentivo invece i singhiozzi, come se stesse piangendo, poi mi avvicinavo e capivo che stava pregando. Non capivo le parole, deglutiva continuamente mentre parlava una lingua che non aveva vocali. Mentre cominciavo ad ambientarmi, sentendo una brezza piacevole sulla pelle, e perlustrando con lo sguardo gli alberi frondosi e il cielo, incuriosito dal verso buffo delle taccole e dal loro nervoso spostarsi da un ramo all’altro, da un torrione all’altro, da una guglia all’altra, lei cominciava a muoversi, e mi inquietava ad ogni gesto, perché pareva che si muovesse come un ragno o comunque qualcosa di viscido, qualcosa che non capivo. A volte mi avvicinavo tanto da toccarle la pelle e poi mi guardavo le dita che erano tutte invischiate. Aveva i capelli rossi più di un rosso corallo, la pelle bianca più del latte, a volte sembrava lei stessa latte, sembrava fatta di latte, sembrava sudare latte e mi veniva voglia di abbracciarla. Una volta mi aveva guardato con occhi scintillanti, che erano subito diventati rossi, con un sorriso cattivo e mi veniva voglia di possederla, di avvinghiarla, di strizzarla, e fu quella volta che mi svegliai eccitato. Ma, prima di qualsiasi contatto, fuggiva, arrampicandosi come un animale viscido, e io mi svegliavo col batticuore, temendo di riaddormentarmi e rivederla ancora più mostruosa. Sognavo spesso questa ragazza magica. Una notte aveva pianto inequivocabilmente, era umana, completamente umana, la pelle pallida ma umana, senza più nulla di raccapricciante, gli occhi erano di un sapido verde, mi diceva «Guarda le mie lacrime», ed erano tutte lacrime nere. Le rispondevo «È il rimmel che ti cola giù», come in un film del secolo scorso, e invece l’avevo solo pensato, non ero riuscito a dire niente per consolarla: piangeva lacrime nere, e non potevo farci niente. Pensavo di leccarla tutta, partendo dalla faccia, per sentire se piangeva veranio. Ma ogni volta che mi avvicinavo a lei così tanto, mi risvegliavo.”