LA LETTERA SOTTO IL TABARRO

IV

La tredicesima lettera scritta è la tredicesima lama

          LA LETTERA SOTTO IL TABARRO

Senza titolo

            Il pellegrino si fermò. L’uomo della città gli indicò le strade che portavano alla moschea. Pensò: “Le stelle sono blu quando non sono in lutto”. Lo ringraziò dicendogli “Ci rivedremo”. Sapeva, lui, che questo incontro non riguardava il mondo.
               Prese i sandali il cui verde sbiadisce il lutto delLa Passione e il Suo giorno presso i cristiani. Tenendoli in mano, continuò a piedi nudi. Portava la tunica di lino bianco tradizionale sotto una coperta nera che indicava il lutto.
             Nella folla, d’improvviso fu preso da un tremito in tutto il corpo. Ebbe appena il tempo di vedere una ragazza sfiorarlo sullo stesso marciapiedi. Si sentì rapito degli occhi, se non violato, proseguì il cammino conservando gli occhi della sconosciuta, che aveva presto sostituiti ai suoi e che Allah nella sua misericordia gli aveva donato come lampada della sua provvidenza. Cominciò e finì tutte le circonvoluzioni intorno alla moschea alla fontana stessa dove, si dice, il cavallo di Gabriele si abbeverò quando portava nottetempo Maometto a Gerusalemme.
              Quando entrò nella moschea, al momento di infilarsi i sandali, gli occhi di lupa malva della ragazza lo avevano abbandonato. Pregò. Era cieco per la preghiera.
            Conosceva, riconosceva nella sua postura sul tappeto il suo oriente, l’urto del Libro sulla fronte, nella chiamata che è la Sua discesa e che accompagnava con prosternazioni commosse. Sapeva che allora una pagina del destino gli era consegnata, che avrebbe visto qualche notte dopo bruciare il silenzio del suo cuore. Quale era la lettera di questo movimento, gli sarebbe forse stata sempre sconosciuta? Pregò nell’algebra delle metamorfosi, ringraziò Allah di averlo reso cieco, così che non avrebbe dovuto imparare a leggere ma imparare a essere letto. La lettera che Gabriele aveva nascosto a Maometto custodiva il suo enigma con il senso finale dell’Islam. Non era entrato in religione; gli era bastato nascere, per sapere che è uccidere la propria madre l’avere amato morirvi.
                 Il tempo della fine era divenuto per il lui il tempo della sua fine in senso pieno.
               è per questo che Allah l’aveva voluto cieco. Questa grazia lo illuminò e gli ricordò l’emozione che aveva avuta quando uno sconosciuto gli aveva detto che si parlava di lui proprio nel Libro degli Spendori.
                Lasciò La Moschea, non senza avere bevuto a quattro zampe come un cavallo alla fontana. La lettera custodita era forse in fondo all’acqua. Il cavallo ne sapeva più di Maometto, l’aveva vista, con i suoi occhi di cavallo.
               Ebbe paura vicino alla casa bassa. Sentì la presenza femminile. Lei lo aspettava. Riconobbe il profumo della sconosciuta sul marciapiedi.
                La immaginò. La vedeva nuda in una falce di luna.
                E lui che era cieco, la vide coperta di segni strani come se la vedesse davvero.
           La ragazza che disegnava mentalmente gli si accostò, lo baciò e gli disse: “Ti dono il mio tabarro, è violetto come i miei occhi che ti ritroveranno là dove non vuoi andare. Me lo restituirai se vorrai vedere la lettera nascosta.”
            Non aveva mai voluto imparare a scrivere, eppure, siccome se ne andava, delle lettere che riconobbe per averle viste sui sagrati delle moschee si misero a ruotare e ad aggregarsi, a danzare nella sua mente, e questo strano balletto si concludeva ogni volta su questa immagine di donna che aveva preso la forma di un calligramma.
                Udì allora questa ingiunzione: “A portata di mano, a portata di mano.”
              Camminava a piedi nudi. Chiese la strada, cercava la porta della città per andare a finirvi i suoi giorni mendico e al tempo stesso benedicente il Signore per avergli insegnato a leggere su un corpo di ragazza nuda senza sforzo la lingua del suo esilio e della sua patria.
            Una volta trascorse molte lune, sentì giunta la sua ora. Si avvolse per la prima volta nel tabarro violetto. Il nero era un tappeto. La ragazza era lì. La sentì venire dentro di lui tanto che non era più, lei aveva la sua carne, adesso i suoi occhi, non osò aprirli e tentare Allah, sapeva di avere ritrovato la vista. Udì: “Guarda la lettera che traccia il mio tabarro, che lei è. Le lettere mi vedevano nuda, mancava una lettera, lei mi veste adesso, poiché io sono la tua morte di cui ci vestiamo.”

(La Nuova Efeso, 1980.)