Recensioni
LA NUDA POETICA DEI FATTI – considerazioni sulla scrittura di Enrico Campofreda
Gustav Klimt, NUDA VERITAS (1889) – olio su tela (252×56,2) –
Österreichisches Theatermuseum, Vienna
Chi è Enrico Campofreda: giornalista, ha lavorato con Paese Sera, Il Messaggero, Corriere della Sera, Il Giornale, La Gazzetta dello Sport, Il Corriere dello Sport, Il Manifesto, Terra. Attualmente scrive su quotidiani online seguendo politica estera e sociale. Ha pubblicato: la raccolta di racconti “L’urlo e il sorriso”, Di Salvo, Napoli, 2007; il romanzo “Hépou moi”, ABao AQu, Rovigo, 2010; il reportage geopolitico “Diario di una primavera incompiuta”, ABao AQu, Rovigo, 2012; il reportage geopolitico “Afghanistan fuori dall’Afghanistan”, Poiesis, Alberobello, 2013. Il suo blog: http://enricocampofreda.blogspot.it/p/enrico-campofreda.html
Bombardati di informazioni da parte dei media, ci barcameniamo tra i segni, disorientati alla ricerca di un senso. Telegiornali, quotidiani, siti, blog, pagine giornalistiche sui social network: dove possiamo trovare un significato non troppo transitorio, una qualche verità che non illumini in modo fittizio i fatti del giorno?
Nel regno del “meramente temporaneo”, ogni evento sfuma nel dubbio: sarà o non sarà veramente occorso il tal caso, sarà o non sarà davvero andata in questo modo quella cosa che ha creato il caos?
Si moltiplicano gli indirizzi web dei giornalisti e degli scrittori preoccupati di dare la caccia alla bufala, impegnati a smascherare la frode. Per conoscere il mondo ogni lettore sceglie il mezzo che preferisce, quello che lo fa sentire a proprio agio, quello nel quale si riconosce maggiormente, e nel quale trova – se è interessato al valore della differenziazione e non si sofferma sulla prima notizia che incontra – più oggettività che inganno. C’è chi segue solo alcuni canali televisivi, chi predilige la navigazione mirata nelle trame del web, chi si confronta con gli amici al bar leggendo il giornale, e così via tra le numerose possibilità esistenti.
Personalmente, mi piace navigare qua e là, cogliendo sprazzi di realtà come in un caleidoscopio per poi metterli insieme, ricostituirli in un discorso di senso che si snoda tra intuizione (la mia) e autorevolezza della fonte (altrui).
Mi affeziono ad alcuni canali informativi e li prediligo per sintonia linguistica e mentale. Leggo ciò che percepisco credibile, guardo volentieri i servizi televisivi cuciti con garbo, perché il riconoscimento del significato delle parole è un valore che richiede impegno e un certo qual tempo per fruire della notizia, sia da parte di chi scrive, sia da parte di chi legge. È anche vero, però, così come riporta Enrico Campofreda in una nota all’interno di un famoso social network, che la scrittura giornalistica e quella poetico-narrativa differiscono proprio rispetto al tempo, e la differenza sta nel “tempo esecutivo”.
“La narrazione giornalistica è scandita dal tempo: devi star dietro alla notizia, produrre in velocità”, dice Campofreda, perché “il giornalista non può stare come il romanziere a osservare l’orizzonte, a cercare l’ispirazione (sic). Lo scritto giornalistico deve correre, forse per questo risulta banale e poco lirico. La stessa produzione di notizie, che si faceva con la carta stampata (che ti dava alcune ore per elaborare il pezzo), con l’avanzata tecnologica del web t’impone corse e rincorse mozzafiato. I tempi di produzione si dimezzano … La rapidità con cui si deve arrivare alla fine è intensa, cosa che può confliggere con la scrittura meditativa (e in certi casi più profonda). La scrittura giornalistica è, comunque, un ottimo allenamento per la scrittura tout court. Un po’ come il vecchio tema scolastico: hai quattro ore per farlo. Non oltre. Ma se non si deve strozzare la scrittura con la mannaia del tempo, non è neppure concepibile teorizzarne una dilatazione infinita.”
Se il problema del tempo è pregnante, vero è che la scrittura di Campofreda – allenatasi a navigare tra argomenti sportivi, cinematografici e di attualità – ha in se stessa un filo rosso di riconoscibilità, una ritmica che si concede il tempo della metafora e lascia intravedere la traccia del passaggio di una visione poetica interna alla constatazione della realtà dei fatti.
Personalmente, trovo attraente un articolo che riesca a narrare i fatti, per violenti che siano, con parole nude e crude, ma senza la malizia della seduzione obbligata: Nuda Veritas è già in se stessa bellissima e inquietante, sconvolgente creatrice di meraviglia, stupore e paura. Non ha bisogno di essere sovraccaricata di parole come armi, soprattutto laddove gli eventi sono già densi, sanguigni, guerreschi, ovvero semplicemente umani.
I fatti del mondo possono essere guardati con occhio poetico laddove ci sia una certa dose di consapevolezza, la coscienza della innegabile tragicità dell’uomo in relazione con l’altro.
E’ la poetica della vita, la storia della nostra specie costellata di luci e ombre.
Nuda Veritas del mondo si mostra nella propria inaccessibile forma, ma indica per noi la possibilità di riflettere: è una possibilità che rappresentò a suo tempo la fanciulla s-velata nel dipinto klimtiano e ancora può, se la si guarda oggi come metafora del linguaggio, ricoprire. Lei si presta, io credo, volentieri a farsi attrice del dire la nuda poetica dei fatti. Queste sono le stesse forme che scopro nella scrittura del giornalista che negli anni ha danzato tra un articolo di cinema e uno di attualità, tra numerosi racconti e nei romanzi. Leggendo i suoi articoli più attuali, incontro una parola capace di aprire un canale di riflessione, di portare il pensiero sui fatti accaduti a migliaia di chilometri di distanza da me, da voi, facendomi e, se lo conoscerete attraverso i suoi scritti, facendovi avvicinare con semplicità a quei fatti senza stravolgerli. Senza sconvolgermi. Coinvolgendovi. Dunque, leggendo ad esempio la storia dei piccoli migranti sul blog di Enrico Campofreda e su Agoravox non posso certamente dire che le ferite del mondo mi appaiano diverse da quel che sono, ma di certo non mi appaiono confusive, non vengono dipinte per aumentare il caos ma per risvegliare l’emozione. http://enricocampofreda.blogspot.it/2016/09/piccole-anime-nel-mondo-i-nu…
Di fatto, le parole che leggo entrano in risonanza con me, con tutti noi, sono quelle che toccano l’anima.
Arrivano.
Basta una frase.
Si può essere poetici eppure obiettivi e neutrali? Si può risvegliare la partecipazione del lettore facendo giornalismo? Sì, se il linguaggio giornalistico si permette di essere vitale, ricco di immagini metaforiche, e non freddo, meccanico, intellettualistico.
“È misteriosa la lingua può celare e celiare”*
“Non tutto è sintassi e grammatica, l’emozione viaggia anche in una frase scritta su un muro dietro la Rambla” *
*(“Hepou moi”, 2010)
“Hépou moi” è un romanzo scritto a due mani da Enrico Campofreda e Gogo della Luna. Due mani, quattr’occhi e due anime per una storia a tre voci, una narrazione nella quale le voci in questione sono appartenenti a personaggi di volta in volta reali o immaginali. Poco importa, alla fin fine, che questi attori si rivelino due o tre, perché dentro il gioco di riflessi che l’anima – o l’Anima in senso junghiano, ovvero quel femminile interiore che è la nostra personale Nuda Veritas con lo specchio in mano – i volti compresi nella nostra identità sono molteplici. “Hépou moi” – ovvero: “Seguimi” – riflette in modo multiforme intorno al tema della vita e della morte, addentrandosi sulla scia di quest’ultima nell’argomento “eutanasia”. La storia si snoda e traccia il tema in modo poetico e allo stesso tempo concretamente reale, così come ci si poteva aspettare dalla penna di Enrico Campofreda. Un mistero, la nostra fine, così come la parola, quella che per gli scrittori sta a indicare il sipario che cala sulla trama, la nascita di uno scritto è la sua chiusura.
Lo scrittore e il giornalista: Campofreda ospita ben più di due voci nella stessa anima, operando tra registri narrativi differenti un’alchimia linguistica padroneggiata con maestria ma con modestia – da quel poco che lo conosco, posso affermare che non lo sentirete mai parlare di se stesso con boria o presunzione, ma sempre con la delicatezza di colui che “dell’arte linguistica” ha fatto “strumento di lavoro”.
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