LA RIVINCITA DELL’OMBELICO

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Non so voi, ma io ne ho abbastanza della cantilena di critiche che puntano dritte dritte al povero piccolo ombelico, dell’omelia di commenti piccati che lo bistrattano, chiamandolo in causa per nome o riducendolo a una fastidiosa appendice aggettivale tutte le volte che si vuole alludere a una certa attitudine egocentrata e solipsistica, in specie quando si sta parlando della nobile arte dello scrivere. L’arte per eccellenza, mi verrebbe da dire, in questi tempi illuminati dagli schermi del pc e degli smartphone eternamente connessi a qualche social network, dove la scrittura è il fulcro di interesse e il codice prediletto degli scambi, e tutti quanti si sentono un po’ scrittori e un po’ poeti, pigiando svelti i tasti al ritmo dei pensieri che si affastellano in un click , e anche un po’ critici, diciamocelo, perché c’è sempre da sparare a zero su qualcosa che è stato scritto da altri. Social network a parte, la critica letteraria accreditata non è da meno quando si tratta di mirare al centro della fessura di mondo che abita minuscola le pance degli scrittori e dei poeti, quelli accreditati pure loro (non mi chiedete chi accredita chi per primo, siamo più o meno all’aporia, o per intenderci al rompicapo del “prima l’uovo o la gallina?”) . Mio dio, c’è sempre in agguato lo spauracchio di cadere nelle trame di una scrittura ombelicale ogni volta che un io attraversa sinuoso il discorso nei panni sfavillanti del protagonista, tipo sfilata da tappeto rosso la notte degli Oscar, campeggiando sulla pagina bianca con tutta la forza della propria individualità. Al bando ogni io, e smettiamola di ravanarci l’ombelico, ché non interessano a nessuno le nostre patetiche questioni personali quando facciamo Letteratura e meno che mai Poesia (con la “L” e la “P” maiuscole, così si capisce bene che ci si riferisce a qualcosa di importante), dice il saggio o la saggia Vattelapesca. Sarà vero. Per carità, e chi sono io per affermare il contrario?

Non so a voi, però a me il mio ombelico (nonché quello dei miei simili) è simpatico e credo che ingiustamente lo si accusi troppo spesso di essere il vortice di ogni miope individualismo da pennaioli scadenti. L’ombelico è una cicatrice, magari non ci facciamo caso o ce ne siamo proprio dimenticati, una cicatrice posta in bella vista che forse varrebbe la pena di considerare da una prospettiva diversa. A me ricorda di continuo che al suo posto, prima del muto accenno di bocca rotonda chiusa in sé stessa, c’era un cordoncino di carne viva proiettato all’esterno di noi, che ci teneva legati a un altro essere umano, in modo indissolubile e necessario. Era qualcosa con cui ci nutrivamo, indispensabile per la nostra sopravvivenza quando eravamo solo qualche grammo di pelle e sangue, pesciolini natanti nel mistero di un altro corpo. Senza il cordone ombelicale non saremmo stati connessi a un’altra esistenza, non ci sarebbe stato mai nessuno scambio di nutrienti e di ossigeno, non saremmo cresciuti affatto, non saremmo diventati quell’io che con un taglio netto e un pianto scomposto si è conquistato l’individualità piena, insieme al suo corredo di solitudini. La metafora cucita addosso all’ombelico, che lo rappresenta come incavo di sterili chiacchiere d’inchiostro rivolte solo al proprio misero e insignificante sé, del tutto incapaci di coinvolgere chicchessia, a me pare riduttiva, ecco, l’ho detto. Forse il problema è tutto lì, in una questione di direzione, di come muovo la penna in circolo, delle differenti possibili modalità di frugare l’epicentro del mio essere. Modalità centripeta: verso l’interno, chiusa stile cozza, scrivo a me stessa, racconto di me come se fossi io centuplicata nella stanza degli specchi di un luna park di provincia, tutta presa in un monologo cieco e sordo, anche alle proteste del mio ombelico, che mi ricorda invece una storia di interdipendenza, di relazione, di legami con l’altro. Modalità centrifuga: verso l’esterno, esposta, scrivo e racconto (anche) di me per scomparire piano piano dentro la voce di chi decide di prendere in prestito le mie parole, e in questa specie di dialogo a distanza non ci sono comparse, ogni io in ascolto può incarnare il protagonista di una narrazione dai contorni universali. L’ombelico allora diventa una porticina attraverso la quale io posso comunicare di pancia, che non significa in preda all’emotività (no, perché lo so che il saggio o la saggia Vattelapesca qui interverrebbero dicendo che la Letteratura e la Poesia non sono frutto di uno sfogo emotivo, eccetera eccetera), significa dal centro di me al centro dell’altro, avendo presente che è una questione di vita o di morte, necessaria, ritrovarsi in un discorso in cui l’io sappia emergere ed essere così forte da lasciarsi accogliere e possedere da chiunque voglia farlo proprio, e la smetta di declinarsi nell’impersonale informe di tanta anonima scrittura, che non so a voi, ma a me, con tutto il dovuto rispetto, annoia fino alla letargia.

Margherita M.