LA TERRA PIU’ DEL PARADISO di Roberta Dapunt

a cura di Silvia Longo

LA TERRA PIU’ DEL PARADISO

di Roberta Dapunt

Non ho potuto fare altro che sottolineare il buono che c’è.
Senza esaltare, perchè non è geniale. Solo a tratti, qualche spunto
interessante. Ma di base non so come si salverà.
Mi dispiace.
 

“In questo buio compatto è perpetuo novembre.
Sei tu Dio? Onnipresente sconosciuto.
Perché io so che tu sei,
lo sanno i miei sensi
quando tornano dalla stalla.”

C’è Dio, nel cuore della poetica di Roberta Dapunt.
Dio o la sua assenza, la reticenza a farsi trovare quando è cercato.
Comunque Dio, poiché affermarne o negarne l’esistenza – e l’immanenza nel mondo sensibile – conduce allo stesso risultato. La parola crea, evoca, rende reale. Per tutto il tempo in cui parliamo e scriviamo di qualcosa, questo qualcosa esiste, e magari riempie un vuoto dell’anima. Ma è solo un palliativo:

“Divina solitudine sulla mia parete,
cederei la penna per un solo giorno di fede.”

Spesso Roberta Dapunt parla di Dio con nostalgia, nel senso letterale della parola: il mal di ritorno, quello dell’esule, di chi è lontano da una dolcezza sperimentata e persa, di chi Dio l’ha stretto nell’anima – un tempo – e adesso non è più capace di farlo.
Rimpianto per l’infanzia, in cui il candore permette fede ingenua, e devozione di rosari e inginocchiatoi, di mani giunte e ostie accolte come salvazione.

“Sgonfiami di dosso l’insolenza
e l’orgoglio di essere cresciuta.
Ora che le mie mani non si alzano più nel cielo,
come un bimbo nel suo unico tempo
in cerca di amore e di un abbraccio.
Ora che i piedi abitano fermi il suolo
è estenuante l’attesa del paradiso.”

Solo chi crede, o ha creduto, percepisce con tanto dolore il sopraggiungere del silenzio di Dio, il sentirsi abbandonato sulla croce, la latitanza della fede. A tale sconforto, Roberta Dapunt cerca conforto. Nella poesia, a riprova della fede nel Logos:

“Scrivo per vivere meglio le abitudini della mente.
Ripeto a voce i versi e li riscrivo
nel buio pesto e ad occhi chiusi,
finchè in essi rimane l’anima soltanto
e mi sorprendo le rare volte,
che essa mi si presenta sul quaderno
invitandomi a un sorriso per un attimo contento.”

nel contatto con la natura, con i suoi ritmi e le stagioni, con le mansioni a essi legate che si fanno preghiera e liturgia delle ore:

“Curo i prati come il pavimento della mia casa”
“Il messale che conosco è un ricovero di vacche,
una greppia da riempire, il suono umile del fieno
in bocca a chi sa ruminare.”

Nella semplicità della vita di montagna, nei riti del paese in cui risiede, negli incontri con persone consuete a una religiosità tradizionale, che tuttavia sembra renderle felici e appagate intimamente:

“Insegnami la metà delle tue orazioni uma*,
quelle che ignota è la loro grazia.
Insegnami ad aspirare alla metà del tuo traguardo,
quel paradiso sicuro che ti fa stare così bene.
Insegnami la tua anima innamorata,
quella che non sai spiegare, per umiltà uma.”

(Uma: madre in ladino)

Nell’isolamento, nella riaffermazione della sacralità del dolore, e di come il dolore stesso – anche quello estremo, che conduce alla morte – renda chi lo sperimenta in qualche modo puro e libero: il paradosso della croce, l’annientamento del sé che riscatta e trasforma l’uomo in dio. Questo, almeno, un credo di certezze.

Credo nella gloria dei vinti.
Credo nelle loro carni piegate sotto le macerie,
i loro respiri cessati.
Credo nelle distese di orti trasformati,


Credo nei miserabili che annegano alle porte d’Italia.
Credo in quelli che rimangono e il giorno dopo chiamiamo clandestini.
Credo nelle loro bambine vendute ai nostri piaceri

Una sofferenza sincera nella poesia di Roberta Dapunt, espressa in versi liberi, soliloquio che somiglia, a tratti, a una preghiera nel suo assumere connotati quasi liturgici, con antifone che introducono al senso della strofa a seguire, un’inquietudine che si traduce spesso nell’interpretazione dei fenomeni naturali come un prolungamento o un’antitesi del sé.

“Perché solo è il corpo ad amare più la terra del paradiso.”