La visione 15. Senza eredi

Stravinsky aveva l’abitudine di rivedere le sue partiture molte volte. La sagra della primavera non fece eccezione. Ne circolarono diverse versioni, mentre Ernest Ansermet continuava a dirigere la prima, non approvando le revisioni dell’autore. Ma quali furono le conseguenze della Sagra?

Ebbene, in sostanza non ve ne furono. Nella sua produzione successiva Stravinsky si mosse in direzione contraria: le dimensioni dell’orchestra si ridussero, la scrittura diventò lineare; il ritmo rimase centrale, ma non fu più al centro di esperimenti.

Per circa dieci anni, Stravinsky scrive per piccole orchestre da camera. Poi imbocca la strada del neoclassicismo, e nel frattempo si interessa di jazz, e dopo la guerra approda alla dodecafonia di Schoenberg e alla musica medioevale. La sagra della primavera diventa un classico, nel 1939 entra anche nella colonna sonora di Fantasia di Disney -è la sequenza della creazione del mondo- ma eredi della sua lezione non ce ne sono. Giacomo Puccini ne imita in Turandot alcuni passaggi, lo stesso fa Aaron Copland in Billy the Kid, ma nessuno sembra interessato a proseguire nella strada della politonalità e della poliritmia battuta da Stravinsky. Nemmeno lo stesso Stravinsky. Bisogna dargli atto che ha ragione quando afferma che non vi fu alcuna rivoluzione con La sagra della primavera. Come Picasso, con Les demoiselles d’Avignon, provocò il cubismo senza avere la minima intenzione di fondarlo, e poi se ne allontanò, Stravinsky non voleva fare alcuna rivoluzione, voleva solo comporre La sagra della primavera, e poi subito prendere una nuova strada. Fu un rivoluzionario suo malgrado, e negli ultimi anni poté dire: “Sono nato fuori dal tempo, nel senso che per temperamento e talento sarei stato più adatto per la vita di un piccolo Bach, trascorsa nell’anonimato e componendo regolarmente per un servizio stabilito e per Dio”.